Ho avuto il piacere di incontrare Jane Goodall in diverse occasioni, durante congressi scientifici internazionali e anche durante incontri meno formali. Ogni volta, emergeva con forza la sua capacità di trasmettere un coinvolgimento profondo, non solo pratico ma anche emotivo, verso tutto ciò che lega l’essere umano al mondo naturale. Nei suoi occhi e nel suo modo di raccontare il lavoro sul campo si percepiva una convinzione incrollabile: noi non siamo entità separate dalla natura, ma parte integrante di un continuum che ci unisce agli altri viventi.

Jane è oggi un punto di riferimento imprescindibile per chiunque si occupi di etologia e, in particolare, di primatologia. Le sue osservazioni hanno aperto nuove strade a interi filoni di ricerca, costringendo la comunità scientifica a rivedere vecchi dogmi e a riformulare molte delle certezze che separavano l’uomo dagli altri animali. Le scoperte maturate a Gombe, sito di studio in Tanzania dove ha lavorato per quasi tutta la vita, hanno infatti contribuito a rafforzare una visione gradualista dell’evoluzione, mostrando come tratti comportamentali complessi che un tempo si credevano esclusivi della nostra specie trovino invece radici profonde anche in altre linee della storia naturale.

Tra i suoi contributi più dirompenti c’è certamente l’osservazione dell’uso di strumenti da parte degli scimpanzé. Era il 1960 quando, armata soltanto di un binocolo, un taccuino e di una pazienza infinita (dote necessaria per un etologo), Jane vide con i propri occhi un maschio di nome David Greybeard inserire un ramoscello in un termitaio per catturare insetti. Non si trattava soltanto di un gesto pratico: implicava la capacità di immaginare un oggetto come estensione del proprio corpo, di modificarlo per un fine specifico e di trasmetterne l’uso ad altri individui. Con questa singola osservazione cadde uno dei muri più solidi che l’uomo aveva eretto a propria difesa identitaria: non eravamo più gli unici “fabbricatori di strumenti”. Ma non era finita qui. Goodall dimostrò che diverse comunità di scimpanzé sviluppano tradizioni proprie, modi distinti di usare oggetti e di interagire con l’ambiente. Era l’evidenza di una vera e propria cultura animale, un concetto che fino ad allora si riteneva patrimonio esclusivo della nostra specie.

Le sue ricerche portarono poi alla luce un mondo sociale di sorprendente complessità. Gli scimpanzé non erano più descrivibili come creature semplici, guidate unicamente da istinti primordiali, ma come individui capaci di stringere alleanze, costruire gerarchie, manifestare cooperazione e al tempo stesso esercitare violenza organizzata. La cosiddetta “Guerra dei quattro anni degli scimpanzé di Gombe”, un conflitto tra gruppi rivali documentato tra il 1974 e il 1978, rivelò la capacità di pianificare attacchi, difendere territori e mantenere strategie a lungo termine. Parallelamente, Goodall scoprì che gli scimpanzé non erano nemmeno strettamente vegetariani: potevano coordinarsi in battute di caccia per abbattere piccoli mammiferi o altri primati, come i colobi rossi, condividendo la preda con regole di scambio e reciprocità.

Ma se la violenza e la competizione colpirono l’immaginario collettivo, non meno sconvolgenti furono le prove del fatto che questi incredibili animali provano emozioni. Jane documentò madri in lutto che vegliavano i cadaveri dei loro piccoli, adulti che confortavano un compagno ferito, femmine che si prendevano cura di cuccioli non loro. Si trattava di comportamenti che rivelavano un mondo emotivo articolato, ricco di sfumature che difficilmente potevano essere liquidate come semplici riflessi istintivi.

Uno degli aspetti che più distingue l’approccio di Goodall è stata la sua scelta coraggiosa di rompere con i canoni del metodo scientifico dell’epoca. Negli anni Sessanta, gli animali dovevano essere osservati come “unità numeriche”, senza attribuire loro nomi o tratti distintivi. Jane, invece, decise di dare identità e personalità ai suoi scimpanzé: David Greybeard, la dolce Flo, la curiosa Fifi… Non era un vezzo sentimentale, ma il riconoscimento che ogni individuo possiede temperamenti e inclinazioni propri, elementi che condizionano la vita sociale del gruppo e che non possono essere ignorati se si vogliono comprendere davvero le dinamiche collettive.

Questa sensibilità, che univa rigore scientifico e capacità empatica, affondava le radici nella sua infanzia. Fin da bambina Jane nutrì una passione profonda per gli animali e per la natura, alimentata da letture che la spinsero a sognare l’Africa. Nel 1957 si trasferì in Kenya dove incontrò Louis Leakey, l’antropologo che ne intuì il talento e la sostenne nei primi passi verso una carriera inusuale per una giovane donna di quell’epoca. Tre anni più tardi, nel luglio del 1960, a soli ventisei anni, approdò alla riserva di Gombe, in Tanzania. Era l’inizio di un’avventura che non solo avrebbe trasformato la primatologia, ma avrebbe cambiato per sempre il nostro modo di vedere il rapporto con gli altri animali.

Ed è qui che emerge un altro elemento decisivo: Jane Goodall non è stata soltanto una scienziata rivoluzionaria, ma anche una pioniera nel senso più pieno del termine. In un mondo accademico dominato dagli uomini, con pochissimo spazio per le donne e quasi nessuna possibilità di immaginarsi in prima linea nella ricerca sul campo, Jane ha tracciato un sentiero nuovo. Ha dimostrato che il genere non è una barriera alla scienza e che la sensibilità femminile può diventare un valore aggiunto, una chiave di lettura capace di cogliere sfumature che un approccio puramente distaccato e “maschile” rischiava di ignorare. Con il suo esempio ha dato coraggio a intere generazioni di ricercatrici, che hanno visto in lei la prova vivente che si può essere al tempo stesso scienziate, donne e protagoniste di un cambiamento culturale.

Le scoperte rivoluzionarie di Gombe si intrecciarono presto con una visione più ampia, che andava oltre la pura osservazione. Nel 1977 Jane fondò il Jane Goodall Institute, un’organizzazione che da allora sostiene la conservazione degli scimpanzé e dei loro habitat, promuovendo al tempo stesso l’educazione ambientale. Nel 1991 diede vita al programma Roots & Shoots, che coinvolge milioni di giovani in tutto il mondo in progetti concreti a favore dell’ambiente, degli animali e delle comunità umane.

La sua missione non si è mai limitata a salvare gli scimpanzé: Goodall ha compreso presto che senza il coinvolgimento diretto delle popolazioni locali nessun progetto di conservazione poteva avere successo. Per questo ha promosso iniziative volte a garantire un uso sostenibile delle risorse naturali, a migliorare le condizioni socio-economiche e a ridurre il conflitto tra le esigenze umane e la tutela dell’ambiente.

Dopo decenni di ricerca e di impegno, Jane Goodall ha continuato a viaggiare, a parlare ai giovani, a portare in ogni angolo del pianeta un messaggio di responsabilità e speranza. Il suo invito era semplice ma rivoluzionario: costruire un rapporto più armonico con la natura, riconoscendo che la nostra sopravvivenza è indissolubilmente legata a quella delle altre specie e degli ecosistemi di cui facciamo parte. È un messaggio di pace, di riconciliazione, di umiltà: esattamente ciò di cui abbiamo bisogno in questo periodo storico, in cui sembra sempre più difficile distinguere ciò che è profondamente giusto da ciò che è confusamente sbagliato.

Per tutto questo, e per averci insegnato a guardare gli scimpanzé, e noi stessi, con occhi nuovi, non possiamo che dire: grazie, Jane.