Curare il cuore agendo sui difetti molecolari: è questo l’obiettivo sul quale lavorerà per i prossimi cinque anni il gruppo di ricerca di Silvia Priori, direttrice dell’Unità di Cardiologia Molecolare dell’IRCCS Maugeri di Pavia, grazie all’ERC Advanced Grant assegnato al progetto.
Lo strumento è la terapia genica, già una realtà per alcune malattie genetiche, ma qualcosa di più nuovo per quelle acquisite. E che, come dice da subito Priori, «Potrebbe non dare i risultati che speriamo. D’altronde, possiamo scoprirlo solo provando: questa ricerca è il primo passo per esplorare le possibilità della terapia genica nel trattamento delle patologie cardiache non ereditarie».
Dalle malattie genetiche a quelle acquisite
L’idea di base alla terapia genica è curare la malattia alla radice, intervenendo direttamente sul gene mutato che causa la patologia. Per questa ragione, proprio le malattie monogeniche (cioè che si presentano quando è un singolo gene a essere mutato) sono da sempre le candidate ideali. E, dall’ideale, alcune lo sono diventate anche nella pratica: tra queste vi sono per esempio l’emofilia, l’ADA-SCID (la prima malattia a essere curata con la terapia genica), la beta-talassemia.
«In linea di principio, possiamo dire che quando la mutazione impedisce al gene di funzionare, producendo una proteina alterata o in quantità non sufficiente, l’obiettivo della terapia genica è introdurre nelle cellule del cuore un frammento di DNA che codifichi per la proteina che dovrebbe essere prodotta dal gene mutato, così che il DNA sano introdotto con la terapia genica possa ripristinare livelli corretti della proteina difettiva», spiega Priori. «Quando, viceversa, la mutazione rende un gene eccessivamente attivo, l’approccio della terapia genica si basa sull’RNA interference. Si introduce nelle cellule un frammento di RNA in grado di appaiarsi con precisione all’RNA messaggero che codifica per la proteina mutata, impedendone – e dunque riducendone – la produzione».
Questo tipo di strategia richiede che si sappia quale gene deve essere modificato per ripristinarne la funzione. Questo approccio è possibile per molte malattie genetiche: ma che dire di quelle acquisite, cioè che non dipendono da mutazioni ereditarie presenti dalla nascita ma dipendono da meccanismi diversi, che causano malattie degenerative come lo scompenso cardiaco o la fibrillazione atriale?
Cosa significa applicare la terapia genica alle malattie acquisite del cuore?
La risposta, in questo caso, è identificare un meccanismo disfunzionale che possa essere modulato con la strategia della terapia genica. E questo implica essenzialmente trovare una molecola che influenzi la patologia. E poi aumentando o riducendo i livelli della molecola che contribuisce a generare la patologia, fino a portare alla guarigione.
In effetti, la conoscenza delle cause che portano allo sviluppo di malattie degenerative del cuore è molto avanzata e permette di tracciare ipotesi di possibili strategie. «Fra tanti, un pathway che da molti anni è oggetto di studio del nostro gruppo è mediato da una chinasi, la Calmodulin Kinase II delta (abbreviata come CAMKII). Le chinasi sono proteine che svolgono il ruolo di fosforilare altre proteine», spiega Priori. «In condizioni fisiologiche, questo enzima modula la contrazione e il rilassamento del muscolo cardiaco; nelle aritmie e nello scompenso risulta invece iperattivato e quindi esercita un effetto negativo».
«Il ruolo della CaMKII-delta in queste condizioni patologiche è noto da tempo. Nonostante molti gruppi di ricerca abbiano tentato di sviluppare inibitori di questa chinasi, nessuno è mai riuscito a produrre inibitori farmacologici selettivi per CaMKII-delta, perché è molto simile ad altre isoforme espresse in tessuti differenti, tra cui quello nervoso. Di conseguenza, i farmaci che si è tentato di sviluppare davano sempre problemi di neurotossicità», continua la ricercatrice. «La strada della terapia genica è invece molto più specifica: l’uso di acidi nucleici, DNA o RNA, può permettere infatti di modulare in modo molto selettivo l’enzima, riducendo l’attività patologica senza toccare le isoforme attive su altri organi».
I dati preliminari e il lavoro dei prossimi anni
Questo progetto rappresenta di fatto la seconda fase di una prima linea di ricerca, sostenuta dal 2015 da un altro finanziamento ERC e portata avanti in collaborazione con l’Università di Pavia. Il gruppo di ricerca può quindi contare su alcuni dati preliminari solidi, a partire dalla selezione del modello di scompenso cardiaco più idoneo alla terapia, in grado di riprodurre una disfunzione elettrica e contrattile. «Abbiamo condotto i primi test nei topi, ma l’aspetto più importante del lavoro è la possibilità di traslarlo nell’essere umano: per questa ragione, il modello di riferimento per il progetto è ora il maiale, in cui testeremo le molecole per la terapia genica» spiega Priori.
I maiali sono infatti molto simili agli esseri umani per alcuni importanti aspetti anatomici e fisiologici, sistema cardiovascolare incluso. Non meno importante, sia le dimensioni che la fisiologia degli organi dei suini sono più vicine alle nostre rispetto a quelle del topo. La similitudine della funzione del cuore nel suino e nell’umano è confermata da recenti studi che hanno dimostrato come il cuore di suino possa essere trapiantato in esseri umani che necessitino il trapianto di un organo sano. «La scelta del maiale come modello preclinico ci permette anche di applicare le stesse tecniche diagnostiche e di monitoraggio usate in clinica per gli esseri umani, consentendoci di avere una corrispondenza diretta tra i dati raccolti prima e dopo la terapia negli animali e quelli che un giorno si potrebbero raccogliere nei pazienti. Questo aspetto consente anche di validare contemporaneamente terapia e strumenti diagnostici, creando continuità tra fase preclinica e clinica», spiega Priori.
Lo abbiamo anticipato: questa è una strada sostanzialmente nuova, pertanto le sfide quindi non mancano: «Tra le più significative vi è il rischio di reazioni immunitarie verso il vettore virale o verso il DNA terapeutico veicolato. Per prevenire queste reazioni è ormai comprovata la necessità di abbinare alla terapia genica anche una terapia immunosoppressiva», spiega Priori. «Anche la via di somministrazione può rappresentare un’importante difficoltà, perché determina quanti cardiomiociti vengono raggiunti, quanto a lungo viene espresso il gene, e quanto è sicura la procedura. Ci promettiamo nei prossimi anni di affrontare anche queste problematiche per rendere la terapia genica sempre più sicura».
Conclude la ricercatrice: «Siamo molto motivati a lavorare intensamente per aprire la strada verso una nuova prospettiva: quella di una terapia genica non solo per le malattie genetiche, ma anche per quelle che oggi rappresentano una delle principali cause di mortalità a livello globale, le malattie cardiache acquisite».