L’ADHD, o disturbo dell’attenzione e iperattività, è un’alterazione del neurosviluppo che, secondo alcune stime, sarebbe presente in circa il 2,8% della popolazione adulta italiana. Ultimamente molto discussa, questa condizione porta con sé l’immaginario collettivo di un bambino che non riesce a stare seduto al suo banco per un’intera lezione e che, un giorno, diventerà un adulto con una vita altrettanto frenetica. In realtà, i principali sintomi dell’ADHD – inattentività, iperattività e impulsività – possono presentarsi sia in gruppo (forma combinata) che singolarmente, cioè solo nella forma inattentiva o in quella iperattiva/impulsiva.
Un’altra falsa credenza è che a convivere con questa condizione siano prevalentemente gli uomini: non solo non è così, ma gli studi hanno dimostrato che il sesso e il genere influenzano sia la sintomatologia che i vissuti delle persone con ADHD. Nelle donne questa neurodivergenza è però ancora scarsamente studiata e conosciuta. Ne abbiamo parlato con Dora Wynchank, medica psichiatra che, collaborando con il centro PsyQ nei Paesi Bassi e con la Fondazione DIVA, si sta dedicando allo studio e alla comunicazione dell’ADHD nelle donne adulte.
Per parlare di diagnosi mediche, si può usare un linguaggio che separi la condizione dalla persona (es. donna con ADHD), o uno che invece la integri nella sua identità (es. donna ADHD). Quale preferisce usare?
Personalmente preferisco riferirmi a donne “con” o “che convivono con” ADHD.
Vada per “donne con ADHD”. Come mai è importante parlarne?
Innanzitutto, perché l’ADHD è stata erroneamente considerata una condizione unicamente infantile fino a circa vent’anni fa. Anche quando ci siamo accorti che spesso i sintomi persistevano nell’età adulta, abbiamo continuato a considerarla prerogativa del genere maschile. Oggi sappiamo che le donne con ADHD esistono e hanno sintomi diversi rispetto agli uomini.
Le giovani adulte vengono però diagnosticate con anni di ritardo rispetto agli uomini. È probabile che in molti casi l’ADHD non venga mai riconosciuta, mentre in altri la diagnosi avviene solo durante la perimenopausa, ovvero il periodo che precede la menopausa, quando i livelli di estrogeni calano, aggravando i sintomi.
Qual è la ragione di questo ritardo diagnostico?
In buona parte per via della credenza, ancora diffusa, che l’ADHD sia una condizione maschile. C’è poi la questione della sintomatologia. Nelle donne, i sintomi sono sia più “mascherati” sia più frequentemente accompagnati da ansia e depressione, che possono ostacolare il loro riconoscimento.
Qual è la ragione di questa differenza di genere?
È la conseguenza di fattori sia biologici che socioculturali. Fin da bambine, le donne vengono educate a essere calme, gentili e rispettose, diventando più prone a trovare strategie compensatorie e a interiorizzare i sintomi di iperattività e impulsività.
Ci sono poi anche delle differenze biologiche. Alcuni studi hanno dimostrato che il sesso biologico determina l’attivazione di aree diverse del cervello nelle persone con ADHD. Anche la componente ormonale è fondamentale: alti livelli di estrogeni, i principali ormoni femminili, migliorano la concentrazione e il controllo degli impulsi. I livelli di estrogeni però fluttuano costantemente sia durante il ciclo mestruale che nelle diverse fasi della vita (es. pubertà, gravidanza, menopausa), portando a variazioni nei sintomi dell’ADHD.
Tutto questo che effetto ha sul comportamento?
Rispetto agli uomini, le donne hanno più frequentemente la forma inattentiva di ADHD, che si manifesta con dimenticanze frequenti, difficoltà nell’organizzazione e distraibilità. Spesso sembra che stiano “sognando ad occhi aperti”. Le pazienti possono quindi apparire molto calme o essere etichettate come lente o poco intelligenti.
Nell’immaginario collettivo, una persona con ADHD non riesce a stare ferma per più di cinque minuti. Per le donne, quindi, non è così?
In realtà, la maggior parte delle donne con ADHD presentano anche i sintomi di iperattività, che è però interiorizzata. Hanno un’attività mentale frenetica, con pensieri molto caotici. Nelle conversazioni, spesso passano da un argomento ad un altro con molta rapidità. Le emozioni provate possono essere molto intense e improvvise.
Quali sono le loro difficoltà nella vita quotidiana?
Fanno spesso fatica a organizzare la propria giornata. Non avendo una corretta percezione del tempo, arrivano in ritardo agli appuntamenti oppure organizzano troppe attività tutte insieme. Procrastinano le mansioni più impegnative e non rispettano le scadenze, ricevendo per esempio penali per non aver pagato le bollette in tempo. Hanno difficoltà a essere produttive ed efficienti, le loro case possono essere molto disordinate.
La società, però, ancora si aspetta ancora spesso che le donne gestiscano i lavori domestici, magari mentre si prendono cura alla perfezione dei figli o dei genitori anziani. Se tutto questo si combina con l’ADHD, il carico di sofferenza può essere molto pesante da sostenere.
Come se la cavano nello studio e nel lavoro?
L’università spesso è un grande scoglio, perché l’organizzazione individuale diventa preponderante. Studentesse anche molto brillanti potrebbero ottenere risultati al di sotto delle loro capacità. Potrebbero non concludere il primo anno, cominciare un altro percorso per poi interromperlo di nuovo. Sul lavoro frequentemente ricoprono mansioni troppo semplici per il loro potenziale o hanno conflitti con i propri superiori per via dei loro sbagli.
Una donna con ADHD è quindi destinata a non raggiungere mai i suoi obiettivi?
Non è così. Molte donne imparano a compensare i propri sintomi. Potrebbero diventare molto rigide con sé stesse e tendere al perfezionismo per la paura di scivolare nel caos. Potrebbero quindi riuscire a performare correttamente in alcune sfere della loro vita, ma non tenerne sotto controllo altre. Anche questo, però, dipende dalle fasi della vita: molte donne che sono diventate molto brave a gestire i propri sintomi smettono di esserlo durante la menopausa, quando i livelli di estrogeni si abbassano.
Come vengono giudicate da chi si accorge delle loro difficoltà senza conoscerne le causa?
Pigre, caotiche, disorganizzate, incompetenti, demotivate nello studio e nel lavoro.
Temo che loro pensino lo stesso di sé stesse.
Hanno spesso un’autostima molto bassa. Hanno accumulato molte esperienze di fallimento, si sono sentite rimproverate molte volte per le loro mancanze. Come dicevo prima, ansia e depressione sono conseguenze molto frequenti.
Ci hai detto che la diagnosi nelle donne con ADHD è spesso tardiva. Quali sono le conseguenze?
In assenza di una diagnosi e di un supporto terapeutico, molte donne con ADHD provano ad autoregolarsi come riescono. Tra le dinamiche più comuni ci sono l’eccessivo consumo di caffeina, l’utilizzo di sostanze psicoattive e il binge eating, che è un disturbo alimentare caratterizzato da abbuffate incontrollate.
E poi, a volte, la diagnosi arriva. Quali emozioni porta con sé?
Solitamente c’è una prima fase di lutto, ossia il rimpianto di come sarebbe potuta essere la loro vita se solo avessero avuto prima questa consapevolezza. Poi arriva il sollievo, hanno finalmente capito che la colpa dei loro fallimenti non è loro, che non sono né stupide né incompetenti. E infine la speranza che la psicoterapia e i trattamenti farmacologici possano aiutarle.
Una nostra lettrice potrebbe essersi riconosciuta nelle tue parole. Cosa le consiglieresti?
Prima di tutto di informarsi su cosa sia questa condizione. Per esempio, è importante sapere che non tutto è negativo quando si parla di ADHD. Le persone con questa condizione sono spesso socievoli, interessanti, avventurose e molto empatiche. Hanno un modo di pensare creativo e fuori dagli schemi. Online esistono molte risorse, come ADHD Powerbank, un sito di informazione creato da me e dalla dottoressa Sandra Kooij.
Le raccomanderei poi di rivolgersi a un’associazione di pazienti, come per esempio l’Associazione Italiana Famiglie ADHD (AIFA) APS.