Il mondo accademico occidentale si trova di fronte a un bivio. È abbastanza evidente, alla luce delle discussioni interne e delle risposte che negli Stati Uniti le università, le accademie, gli enti di ricerca, le agenzie regolatorie eccetera stanno dando agli ordini, ai ricatti, alle ritorsioni e alle censure da parte dell’amministrazione Trump. Quello che sta accadendo nel più vasto e potente sistema della ricerca e dell’insegnamento al mondo sollecita riflessioni. Al di là delle reazioni di pancia. Non per la novità delle idee che ispirano le azioni, ma per le dimensioni e le forme. Dinamiche politiche illiberali a carico della ricerca scientifica e degli insegnamenti hanno riguardato e riguardano anche democrazie di paesi europei (Ungheria, Polonia e Italia si sono aggiunte alla Turchia). Ma non con tale sistematicità e pervasività.
Negli anni a venire il numero di paesi democratici che diventeranno illiberali (o, come anche si dice, forme di “autoritarismo competitivo” o di “erosione democratica”) sarà in aumento ed è ragionevole provare a immaginare quali strategie o tattiche adattative adotteranno le comunità accademiche. Una possibilità è la resistenza a senso unico, mentre un’altra può essere la ricerca di qualche forma di compromesso.
La scienza accademica si fonda, anzi ha fondato, con i contenuti dei primi statuti delle accademie scientifiche (Lincei 1603-1605, e Royal Society 1660), i principi della democrazia moderna: libertà di espressione, tolleranza e rifiuto di ogni condizionamento ideologico (in quei documenti si parlava anche di eguaglianza morale tra gli uomini, onestà, rispetto, ecc.). Ciò accadeva quando le società erano spazzate da pestilenze e guerre di religione, da miseria economica e morale, da persecuzioni di liberi pensatori e dalla circolazione di un Index Librorum Prohibitorum. Anche i bambini sanno che i principi fondativi e pragmatici delle democrazie moderne (liberali) sono usati dalle fazioni politiche illiberali per cancellarli (paradosso della democrazia) e instaurare un controllo sulla libertà individuale. Che significherebbe non solo la morte della libertà politica, ma anche della scienza come l’abbiamo finora conosciuta.
Le accademie, università, ecc. non pensano, nel senso che non hanno un cervello per imparare dall’esperienza storica, così come gli individui reali che danno loro vita non possono imparare dalle esperienze che non hanno provato e usano la storia del pensiero e delle pratiche sociali della scienza come meri argomenti retorici.
Stiamo vedendo un po’ ovunque leader e partiti illiberali al governo o in procinto di andarci, che attuano e giustificano interventi volti a togliere finanziamenti, ricattare e censurare attività di insegnamento e culturali nel nome di un’igiene ideologica mirata strumentalmente a specifici elementi culturali (negli USA: inclusione, equità, diversità, accessibilità, black history o schiavismo, gender, ecc.). Tali azioni sono sostenute da istanze sociali, cioè da una parte rumorosa della popolazione, insofferenti anche verso le indicazioni della scienza (vaccini, cambiamenti climatici, cibi transgenici, emergenze psichiatriche, ecc.), cioè verso un’autorevolezza che scaturisce da conoscenze e interventi scientifico-tecnologici che sono sempre più distanti dalle capacità di comprensione, cioè dalle intuizioni delle persone comuni. La polarizzazione politica, che c’è sempre stata nella storia ma non è più calmierata dall’attecchimento culturale di ideologie forti, non vede problemi o apprezza che questi leader e partiti diano l’assalto agli unici veri baluardi contro le derive illiberali: università, accademie, enti di ricerca, sistemi scolastici, stampa, ecc. Il modo più ovvio di minacciare delle comunità è affamarle e ricattarle: togliere i finanziamenti e imporre condizioni politicamente intrusive, per ripristinare l’ossigeno (non a tutti) necessario per continuare a fare ricerca o a sviluppare regole per controllare il funzionamento delle diverse macchine di produzione e validazione dei risultati. Quali ricerche fare, come e che regole adottare per effettuare i controlli non sono più decise in modi indipendenti dalla politica, come accade nel mondo liberale e quale condizione necessaria per una conoscenza oggettiva e sicura, ma rientrano nelle prerogative dei governi. Del resto, il paternalismo autoritario nelle sue forme è un’indole umana innata.
Bene. Cosa si pensa di fare in ambito accademico per tamponare una marea montante? Qualcuno invoca la resistenza e si dimette a fronte di richieste che vanno contro l’etica della ricerca. Stare rigidi e non cedere ai ricatti, alle ritorsioni, alle intimidazioni e alle richieste di accettare il “pluralismo” nella scienza. La conseguenza sarebbe uno scontro con poteri legittimamente eletti e non è difficile immaginare una disfatta che produrrà o il fallimento economico – e quindi la chiusura di alcuni enti – o un ridimensionamento della qualità della ricerca. Un “dilemma faustiano”, lo ha definito la presidente della National Academy of Science Marcia McNutt.
In realtà, tra i milioni di scienziati la maggioranza sarebbe onorata di servire i potenti di turno e sostituire i riottosi, scavalcando le procedure competitive basate solo sulle competenze. Così si avrebbe sempre meno creatività o innovatività e tutti a traccheggiare nella bonaccia della mediocrità scientifica (in parte anche pseudo-tale, nel nome del pluralismo).
L’altra strada, che sembra quella che sta prendendo piede negli USA, prevede di negoziare con i leader illiberali delle istituzioni politiche in carica per il governo della ricerca, dell’istruzione e della cultura. Nella speranza di un risveglio alla salute mentale dell’amministrazione Trump o di arrivare vivi e vegeti alle prossime elezioni. Verso questa soluzione stanno andando le principali università ed enti di ricerca e controllo negli USA. Si tratta di salvare il salvabile, pagando il pizzo e sacrificando quello che in realtà non arreca particolare danno alla qualità della ricerca e all’insegnamento ed è stato introdotto per sensibilità verso valori politici di eguaglianza (che comunque è un principio integrante di una democrazia liberale). Si chiudono i corsi universitari, di ispirazione woke, su diversità, equità, inclusione, black history o schiavismo, si correggono conformemente gli exhibit nei musei introducendone di nuovi in spirito MAGA, si chiudono o convertono laboratori a seconda dei gusti dei segretari dei dipartimenti, ecc.
Ma negoziare fino a che punto? È quasi fisiologico fare compromessi e valutare se il premio (es. finanziamento top-down) è abbastanza significativo e può andare a favore di una ricerca condotta con criteri scientifici in vista del conseguimento di un obiettivo di interesse generale. Dove si collocherà, però, l’asticella delle intrusioni?
Sul fronte pubblico l’idea, che ruminano le accademie e le comunità scientifiche, è abbandonare lo scontro e accettare un confronto con no-vaxx, negazionisti, complottisti, integralisti, woke, ecc. per impegnarli in discussioni critiche. In linea di principio ci si potrebbe limitare a negoziare solo con le istituzioni illiberali e rifiutare di parlare con chi è in malafede. Ma è un luogo comune umano illudersi che sia razionale, democratico e utile discutere in spazi pubblici di questioni maledettamente complesse con chi è contro un approccio scientifico usando pensieri semplicistici. Esistono dati empirici da cui si evince che i danni maggiori alla credibilità pubblica della scienza e degli scienziati vengono dal partecipare a risse da bar sport. COVID-19 docet! Non è comunque raro trovare persone colte e influenti (anche qualche ricercatore) che avvallano l’idea che la scienza sarebbe una nuova forma di dogmatismo e che servirebbe più pluralismo.
Nella richiesta di pluralismo ci sono due paradossi. Il pluralismo è connaturato alla scienza, e storicamente è stata la scienza a insegnarne il valore costruttivo alle società. La scienza era pluralista quando ancora era vietato parlare di tolleranza. I vantaggi della scienza rispetto alle altre forme di sapere sono che essa usa e rispetta il pluralismo per aumentare lo spettro di ipotesi teoriche da sottoporre a prove sperimentali, in modo da selezionare quelle che sono più valide o vere di altre: la scienza, come l’evoluzione, procede grazie alla diversità. È così che nella scienza cresce la conoscenza e che nelle società pluraliste la libertà individuale e la diversità culturale, regolate dalle leggi, concorrono a risolvere problemi e migliorare la convivenza e il benessere. Il secondo paradosso è che coloro che invocano il pluralismo nella scienza lo vogliono cancellare nel mondo sociale. È solo un pretesto per sdoganare istituzionalmente dei dogmi pseudoscientifici, o chiedere che alcune credenze pseudoscientifiche (es. psicoanalisi, omeopatia, agopuntura, biodinamica, ecc.) siano riconosciute come scientifiche.
Siccome nelle società che diventano illiberali si lavora subito anche dal basso, irreggimentando e igienizzando l’istruzione scolastica secondo principi e valori saldamente tradizionalisti e nazionalisti, per poi introdurre procedure di pulizia ideologica nell’arruolamento dei docenti universitari (alcune università USA lo stanno già facendo), è difficile prevedere gli effetti di questi interventi nel medio e lungo periodo. Probabilmente si dovrà navigare la linea sottile tra la categorizzazione accurata degli elementi illiberali e l’evitare concetti accademici che potrebbero essere percepiti dalle istituzioni populiste come attacchi politici. Sempre al wokismo siamo. Per esempio, l’uso di termini come “illiberale” o “estrema destra” nelle descrizioni di atteggiamenti che hanno un impatto sulla politica della scienza sarà inteso in senso conflittuale e ostacolerà potenzialmente un dialogo produttivo. Ma autocensurarsi linguisticamente significa destrutturare la semantica con cui si lavora, impoverendo le valenze descrittive ed esplicative dei concetti e delle teorie. Quindi, comunque vada, è alto il rischio di fallire o non riuscire a trovare un piano realistico di confronto su fatti e non di scontro portato su un terreno ideologico. Alcuni sostengono, però, che gli accademici dovrebbero riflettere sui modi in cui descrivono e analizzano i movimenti e le decisioni illiberali, senza alienare le persone coinvolte, assicurando quindi che il loro lavoro rimanga rigoroso e rispettoso. Mah…
Che dire del Bel Paese? Per noi non è una novità la manipolazione politica della scienza. Il governo illiberale da poco alla guida non fa che continuare su una strada tracciata. Nel mondo della scienza agricola ministeriale, gli psudoscienziati sono di casa da decenni. Il governo ha semplicemente proseguito nella politicizzazione della ricerca agricola, nella distribuzione politica dei finanziamenti, nelle nomine politiche alla guida degli enti di ricerca, nelle riforme top-down e ispirate dal populismo dell’istruzione scolastica e universitaria. Le accademie hanno proseguito a ignorare le truffe, praticando indifferenza e amicalismo amorale (addirittura si premia uno scienziato che ha dovuto ritrattare decine di paper, e così si dà un messaggio etico imbarazzante ai giovani ricercatori). Forse il fatto più significativo in chiave illiberale degli ultimi anni è l’esecuzione finale del Centro di Medicina Rigenerativa di Modena, che era altamente e internazionalmente competitivo sul piano scientifico e clinico nell’ambito degli studi sulle staminali: ha realizzato uno dei più straordinari risultati storici nell’uso delle staminali, guarendo un bambino affetto da epidermolisi bollosa con pelle transgenica derivata da staminali. In un paese politicamente ed eticamente civile si sarebbe fatto di tutto per valorizzare un simile fiore all’occhiello. Tale è l’assurdità del fatto che viene il sospetto che parte dei motivi abbia a che fare con la spiccata indipendenza e le posizioni intellettuali e politiche della sua leadership scientifica.