«La tecnologia a mRNA offre più rischi che benefici […] I dati mostrano che questi vaccini non riescono a proteggere in modo efficace da infezioni dell’apparato respiratorio superiore come COVID-19 e influenza […] Favoriscono nuove mutazioni e possono in realtà prolungare le pandemie, poiché il virus muta costantemente per sfuggire agli effetti protettivi del vaccino». Sono solo alcune delle affermazioni di Robert F Kennedy Jr, attuale Segretario alla salute statunitense, sui vaccini a mRNA. Alla cui ricerca ha, coerentemente rispetto alle dichiarazioni, tagliato quasi mezzo miliardo di fondi.

Lasciamo un attimo da parte lo sgomento e la rabbia della comunità scientifica per cercare di fare il punto su un altro aspetto: dopo i vaccini a mRNA contro COVID-19, che ciascuno di noi ha imparato a conoscere con la pandemia, a che punto sono questi strumenti? Sono stati davvero solo una parentesi pandemica o potrebbero accompagnarci ben oltre?

I vaccini a mRNA già approvati 

È innegabile che siano i vaccini a mRNA contro COVID-19 quelli per i quali abbiamo a disposizione più dati: d’altronde, i miliardi di dosi somministrate in tutto il mondo hanno prodotto una quantità di dati clinici e di sorveglianza senza paragoni con qualsiasi altro vaccino o farmaco. Gli studi indipendenti sono stati centinaia, e la protezione è stata studiata contro varianti diverse, in scenari epidemiologici differenti, in popolazioni con livelli di immunità pregressa variabile. Insomma, questi vaccini sono stati un caso di studio globale, che ha permesso di raccogliere un’enorme mole di informazioni su efficacia, sicurezza, durata della protezione e impatto reale sulla salute pubblica. Quest’ultimo, per inciso, tutt’altro che trascurabile: secondo le stime più recenti, tra il 2020 e il 2024 avrebbero evitato 2,5 milioni di decessi e salvato circa 15 milioni di anni di vita.

Meno noto, forse, è che ai vaccini a mRNA contro COVID-19 se ne stano già affiancando altri. Uno, in particolare: quello contro il virus respiratorio sinciziale, cui le persone anziane e i bambini piccoli sono particolarmente vulnerabili, è stato approvato in Europa per le persone con più di sessant’anni (per i bambini la protezione si basa sulla vaccinazione materna e sull’uso di un anticorpo monoclonale che fornisce un’immunizzazione passiva). 

C’è anche un altro vaccino a mRNA che è passato un po’ in sordina. Approvato inizialmente in Giappone e, dall’inizio di quest’anno, anche in Europa, è di nuovo contro COVID-19, ma ha una caratteristica nuova: oltre a codificare la proteina Spike di SARS-CoV-2, porta le istruzioni per una replicasi, un enzima in grado di replicare l’mRNA, quindi amplificando l’espressione dell’antigene. In pratica, questo tipo di vaccino (detto sa-mRNA; il nome specifico del prodotto approvato è Kostaive) può offrire la stessa risposta degli ormai classici vaccini a mRNA contro COVID-19 ma a dosi più basse, facilitando anche produzione, costi e accesso.

Vaccini a mRNA, i candidati più studiati

Nel frattempo, forte dei risultati ottenuti contro COVID-19, la ricerca sui vaccini a mRNA procede anche contro altri virus. In primis quello dell’influenza, minaccia stagionale contro la quale i vaccini attuali – pur fondamentali – hanno alcuni limiti che potrebbero essere superati dall’uso della tecnologia a mRNA. Infatti, i vaccini antinfluenzali tradizionali sono prodotti per lo più con la tecnologia egg-based (i virus influenzali vengono coltivati in uova di gallina e poi inattivati o attenuati): questo comporta sia tempi lunghi, perché bisogna scegliere i ceppi da inserire nel vaccino sei mesi prima della stagione influenzale, per dare tempo alla produzione, sia la possibilità che i virus subiscano mutazioni adattative che li rendono leggermente diversi dai ceppi che circolano davvero tra gli esseri umani. Oggi i vaccini antinfluenzali a mRNA sono in fasi avanzate di trial clinici, anche in combinazione con quelli contro COVID-19. 

Un po’ meno avanzati ma pur sempre con trial clinici già in corso sono poi i vaccini a mRNA contro altri “grandi” virus, quello di Epstein-Barr e il Citomegalovirus. Ancora, non mancano gli studi preliminari per vaccini a mRNA contro patologie trasmesse dai parassiti, come quello contro la malattia di Lyme e la febbre emorragica di Crimea-Congo (per ora valutati sui topi e sui primati, rispettivamente), entrambe trasmesse dalle zecche.

Questo per citare le malattie infettive su cui i vaccini a mRNA sono attualmente più studiati. Ma c’è anche un altro grande campo potenziale per questa tecnologia: la terapia oncologica. Non vaccini preventivi, quindi, ma terapeutici: il principio di base è di stimolare il sistema immunitario ad attaccare le cellule tumorali, “insegnandogli” a riconoscere proteine o frammenti peptidici espressi in modo specifico dal cancro. Un processo che potrebbe essere portato avanti sia in modo generalizzato (usando proteine presenti su diversi tumori) sia in modo personalizzato, partendo da biopsie del paziente in modo da avere un’analisi estremamente specifica delle proteine caratteristiche del suo tumore. Anche in questo caso, non siamo certo allo standard clinico ma, almeno in alcuni contesti, i primi risultati sono incoraggianti: un esempio significativo è nei risultati del trial di fase 2 (la fase 3 è in corso) sul neoantigene personalizzato contro il melanoma resecato. Obiettivo del vaccino, somministrato in combinazione con l’immunoterapia, è prevenire le recidive del melanoma, tumore notoriamente aggressivo.  

Vale anche la pena aggiungere che la ricerca non si limita al vaccino contro specifiche patologie, ma indaga anche aspetti come, per esempio, la possibilità di somministrazione per via orale.  

La tecnologia del futuro

Le sfide per i vaccini a mRNA, anche al di là della sicurezza e dell’efficacia quando usati per le specifiche malattie, non mancano: «È il caso della stabilità, che spesso impone ancora una conservazione poco pratica, della reattogenicità, e anche dei costi, che ne limiterebbero l’accesso nei Paesi a basso reddito», spiega Rino Rappuoli, microbiologo e direttore scientifico del Biotecnopolo di Siena. «Di fatto, oggi la tecnologia dei vaccini a mRNA è nella sua infanzia. Ma è anche la tecnologia del futuro, che avrà un impatto enorme in campo biomedico, a mio parere soprattutto nell’ambito oncologico. Certo, COVID-19 è stata la grande spinta – senza la pandemia avremmo forse dovuto aspettare ancora qualche anno per vedere i primi vaccini a mRNA. Ma non era un’idea nuova».

In effetti, vale la pena ricordare che la storia dei vaccini a mRNA poggia in realtà su una lunga storia di ricerca. Soprattutto di base, e la cui partenza può essere fatta risalire all’incirca alla fine degli anni Ottanta, quando il ricercatore statunitense Robert Malone intuì le potenzialità del trasferimento dell’mRNA all’interno delle cellule in cultura in vescicole lipidiche, inducendo la sintesi della proteina codificata. E poi la pietra miliare rappresentata dalle ricerche di Drew Weissman e Katalin Karikò, cui infatti è stato assegnato il premio Nobel per la Medicina nel 2023, che studiando un possibile vaccino a mRNA contro HIV trovarono il modo di evitare la reazione infiammatoria scatenata dalla molecola (usando un differente nucleotide nell’RNA, la pseudouridina). Di fatto, permettendo di utilizzare l’mRNA in clinica.

Inutile negarlo: se è vero che la ricerca funziona quando collaborativa, è anche vero che quella dei vaccini a mRNA è soprattutto statunitense. O almeno, lo è stata fino a ora. «Il taglio dei fondi negli Stati Uniti cavalca un sentimento ed è una scelta prettamente politica, non scientifica. Ed è inevitabile che lo sviluppo di questa tecnologia rallenterà, chissà per quanto tempo», commenta Rappuoli. «Ma vale la pena ricordare che, innanzitutto, i privati continuano a investirvi (e non solo, perché proprio di recente Nature ha ricordato come anche il Dipartimento della Difesa US continui a finanziarlo), e poi che la ricerca comunque continua in Europa e nel resto del mondo. Insomma, il rallentamento è momentaneo e legato all’attuale contesto politico, non certo un arresto definitivo».