Il nuovo capitolo della vicenda ex-Ilva di Taranto si rivela sorprendente oltre ogni aspettativa, anche considerando le innumerevoli singolarità che si sono susseguite dal primo intervento della magistratura nel 2012. Gli ultimi atti, incluso l’accordo firmato da tutte le parti per la transizione, mostrano una generale comunanza di intenti verso la decarbonizzazione, immaginata come un futuro traguardo capace di risolvere miracolosamente i problemi di ambiente, salute e occupazione. Ma è davvero così?

Se per transizione intendiamo il passaggio dalle critiche condizioni attuali – ambientali, sociali e sanitarie – verso una situazione di maggiore equilibrio, allora i tempi e le modalità di attuazione non possono essere considerate variabili secondarie.

AIA e decarbonizzazione: due facce della stessa medaglia

Il ricorrente appello generale alla tutela della salute e la specifica necessità di valutare l’impatto di nuovi scenari richiedono un approfondimento accurato.
Trovo singolare e sbagliata la trattazione separata che il dibattito riserva all’accordo di programma per la transizione ecologica, finalizzato a trasformare lo stabilimento siderurgico in un polo “verde”, rispetto alla nuova Autorizzazione Integrata Ambientale (AIA), mirata invece a garantire la continuità produttiva dello stabilimento con un limite massimo di 6 milioni di tonnellate di acciaio all’anno per i prossimi 12 anni.

Si tratta certamente di documenti con ambiti e finalità diverse, ma interconnessi su molti piani. Entrambi sono animati dall’immancabile promessa di coniugare sviluppo industriale, tutela ambientale e salute pubblica. Oltre alle criticità specifiche di ciascun documento, il loro trattamento separato nel dibattito pubblico rappresenta, a mio avviso, un errore metodologico e un pericolo sociale.

L’AIA prigioniera di 472 prescrizioni

La nuova AIA dell’ex ILVA per produrre 6 milioni di tonnellate di acciaio all’anno (la precedente era stata concessa nel 2011 ed era scaduta da due anni) è stata approvata al termine del lavoro preliminare di una commissione nominata dal Ministero dell’Ambiente. Questa commissione aveva depositato il PIC (Parere Istruttorio Conclusivo), un documento di oltre 400 pagine contenente 472 prescrizioni da ottemperare per l’esercizio dello stabilimento.

Le 472 prescrizioni ambientali costituiscono un record assoluto e riguardano tutti i principali aspetti produttivi e gestionali: dalle emissioni atmosferiche e odorigene alla gestione dei rifiuti, dagli impianti e officine alla gestione delle acque, dai consumi all’attività portuale.

Sulla rilevanza di queste prescrizioni e del parere contrario all’AIA espresso dagli enti territoriali coinvolti (Regione Puglia, Provincia e Comuni di Taranto e Statte) i media hanno posto attenzione nei giorni scorsi. Tuttavia, una chiave di lettura da approfondire riguarda proprio la questione temporale.

Scenari di decarbonizzazione e tempi di produzione: il nodo critico

Anche nella prospettiva più ottimistica, una transizione verso scenari realistici di decarbonizzazione richiede tempo. La durata dipende da numerosi elementi: in primo luogo l’entità dell’intervento industriale (quanti forni elettrici EAF, quanti impianti di pre-riduzione DRI, quale assetto energetico), e se si intende procedere “in parallelo” con l’AIA – mantenendo l’apparato produttivo funzionante mentre si attende di conformarsi alle prescrizioni – oppure seguendo scenari diversi, per esempio dopo fermata e bonifica.

Sebbene non siano stati formulati scenari integrati, l’opzione maggioritaria nel dibattito propende per il procedere in parallelo. Il problema è che i due documenti non vanno di pari passo. Qui emerge la questione cruciale: in quali tempi? E soprattutto, cosa accade nella fase di passaggio, che è in sostanza la vera transizione?

Il progetto di decarbonizzazione rimane indefinito, con posizioni diverse e distanti dei principali attori. Si tratta di un tema oggettivamente complesso che richiede un focus specifico, ma sul fatto che la fase non sarà breve c’è un discreto accordo: occorreranno diversi anni, considerando i tempi di realizzazione di EAF e DRI in altri Paesi. (Per approfondimenti consiglio la lettura del post Facebook della fine di agosto 2025 pubblicato da Roberto Giua, già dirigente ARPA Puglia).

La “terra di mezzo”: un periodo cruciale per ambiente, salute e occupazione

Su quello che accadrà in questo inter-tempo non è contemplata alcuna valutazione preventiva. Le valutazioni di danno sanitario (VDS) e di impatto sanitario (VIS) sono finalizzate a scenari controfattuali, definiti a priori su produzioni future basandosi su dati ambientali e sanitari del passato. Degli scenari attuativi della decarbonizzazione non c’è invece cenno.
Già la lettura dell’articolo 2.3 dell’AIA chiarisce la questione temporale: «Il Gestore deve presentare all’Autorità competente, entro 18 mesi dall’emanazione del provvedimento di rinnovo dell’AIA, un’istanza di riesame dell’AIA contenente la documentazione progettuale e i cronoprogrammi di dettaglio relativi agli interventi di seguito riportati. Per gli interventi previsti su impianti attualmente non in esercizio, l’istanza dovrà essere presentata 12 mesi prima del relativo riavvio».

Dall’analisi delle 472 prescrizioni emerge un quadro inquietante. Sfido chiunque a leggerle tutte di un fiato senza domandarsi se il loro insieme non costituisca di fatto un rigetto dell’autorizzazione.

Molte prescrizioni rappresentano veri macigni da rimuovere, almeno nei tempi prescritti: 94 delle 472 contengono indicazioni temporali dalla entrata in vigore dell’AIA entro le quali l’azienda deve adempiere, con scadenze che vanno da 3 mesi a 3 anni.

A parte il controllo sugli adempimenti, la limitata fiducia che vengano davvero rispettate è giustificata dal fatto che parte delle 95 prescrizioni dell’AIA di 12 anni fa non sono mai state realizzate. Quello che può accadere nel frattempo rappresenta un fattore critico, considerando che si tratterebbe comunque di produzione a carbone.

I riferimenti all’appetibilità commerciale di uno stabilimento oggettivamente invecchiato che oggi produce meno di 2 milioni di tonnellate meriterebbero una trattazione separata. Sui rischi che si profilano vale però la pena riflettere:

  • utilizzare i tempi delle prescrizioni come cuscinetto operativo senza vincoli, con il rischio di prolungare i danni in un territorio che ha già pagato il suo sacrificio
  • continuare a richiedere centinaia di milioni di elargizioni statali per mantenere lo status quo o addirittura risanare uno o due altiforni per aumentare la produzione
  • continuare a impiegare ingenti risorse per la Cassa Integrazione invece di offrire soluzioni adeguate per il mantenimento dell’occupazione, incluso l’indotto, magari avviando un grande piano di bonifica decennale necessario sia per il risanamento che per nuovi investimenti di decarbonizzazione e sviluppo delle energie rinnovabili

Tutti questi elementi potrebbero essere valutati in modo integrato.

Strumenti per le decisioni: perché non utilizzarli?

Avendo promosso e supportato la VIS da vent’anni, posso permettermi di affermare che in questa situazione occorre un approccio epidemiologico più avanzato, finalizzato a valutare in modo raffinato lo stato di salute attuale e a breve termine, integrando scenari durante la transizione e non solo quelli corrispondenti alla produzione di 6 milioni di tonnellate di acciaio all’anno.

Bisogna essere consapevoli che una visione basata esclusivamente sul futuro non è sufficiente a tutelare la salute di una popolazione già indebolita da impatti ambientali che si sono succeduti nei decenni passati.

Per fare un esempio: quando si legge che una produzione a 6 milioni di tonnellate all’anno corrisponderebbe a un rischio residuo inaccettabile di mortalità nel quartiere Tamburi, occorre sapere che anche negli studi già eseguiti lo stato di salute attuale nel quartiere Tamburi risultava inaccettabile. Due facce della stessa medaglia, entrambe di pari rilevanza.

Rifiutare le visioni semplificate

In un’epoca di narrazioni impregnate di parzialità e falsità, anche la VIS non ottiene sconti. La batteria classica di critiche verte su alcuni aspetti che meritano commento.

Prima critica: l’incertezza che affliggerebbe la stima del rischio basata su modellistica. Questa critica viene puntualmente avanzata senza specificare che l’incertezza è misurata e presentata, e che tutte le misure di grandezze fisiche hanno la loro incertezza, incluse quelle riguardanti l’efficienza delle tecnologie presentate come perfette e risolutive.

Seconda critica: le malattie valutate nei procedimenti di VIS, avendo cause molteplici (malattie multifattoriali) – dipendenti cioè dall’ambiente ma anche da stili di vita, condizioni socio-economiche, fattori genetici – risentirebbero solo marginalmente dell’inquinamento. Questa impostazione ignora o nasconde il fatto che la metodologia epidemiologica si concentra sulla componente ambientale tenendo conto degli altri fattori potenzialmente confondenti. Per altri fattori, come l’assetto genetico, non è ragionevole pensare a differenze significative nello stesso territorio di impatto.

Terza critica: l’entità ridotta dell’inquinamento, per esempio le concentrazioni di polveri a Taranto più basse che in Pianura Padana, il biossido di azoto inferiore rispetto alle aree metropolitane. Affermazioni vere ma parziali, perché non tengono conto delle diverse caratteristiche fisico-chimiche dell’inquinamento e della diffusione territoriale molto differenziata, come mostrano le mappe di diffusione. Ignorano inoltre la fragilità di individui e gruppi acquisita in decenni di esposizione a miscele tossiche cancerogene e non. È singolare il confronto con altre aree inquinate dove la situazione sanitaria è tutt’altro che “normale”, registrando migliaia di decessi prematuri ogni anno che non dovrebbero certo essere usati per minimizzare la situazione di Taranto.

Questo armamentario è stato utilizzato anche di recente dall’ex commissario straordinario ILVA, l’avvocato Antonio Lupo, che in un articolo del 23 agosto sulla Gazzetta del Mezzogiorno ha aggiunto un quarto elemento, anch’esso spesso strumentalizzato: il «rischio di sovrastime se si utilizzano dati ormai non attuali: basti pensare a valutazioni basate sul rischio base del 2015, mentre nel frattempo i casi di tumore del polmone a Taranto sono in diminuzione».

In realtà, i dati più recenti (2015-2019) del Registro Tumori dell’ASL di Taranto riportano eccessi di nuovi casi di tumore del polmone nel SIN di Taranto (Taranto + Statte) sia rispetto alla Provincia che alla Regione, pronunciati tra i maschi e ancora più marcati tra le femmine: in leggera diminuzione tra gli uomini (-2,3%) ma in aumento tra le donne (+3,5%). Oltre al tumore del polmone esistono altri eccessi preoccupanti, in particolare per i tumori della tiroide e i mesoteliomi, della testa-collo e della mammella tra le donne, della vescica tra gli uomini, oltre ai tumori infantili.

Un quadro che non consente di parlare di sovrastime, essendo possibili anche sottostime, e che suggerisce molta cautela interpretativa. Sarebbe opportuna una conferenza di consenso sullo stato attuale della salute della popolazione e dei lavoratori.

Valutare gli scenari di transizione

Lo strumento della VIS può permettere di valutare, oltre agli scenari post-AIA, diversi scenari di decarbonizzazione e anche la fase intermedia di transizione. In Regione Puglia e nell’ASL di Taranto esistono competenze ed esperienze in corso in grado di fornire risposte a queste domande, che non dovrebbero rimanere sul piano della ricerca ma essere oggetto di una riflessione più attenta e ponderata.

La VIS per la “terra di mezzo” può tenere conto dei rischi sopra elencati, inserendo negli scenari anche l’impatto economico delle scelte fatte e non fatte, fornendo indicazioni preziose per decisioni basate su evidenze scientifiche. Naturalmente, come tutti gli strumenti, può essere utilizzato o meno, ma per etica delle responsabilità e trasparenza dovrebbe essere spiegato il perché.

Si tratta certamente di un lavoro di frontiera che Taranto si merita. E d’altra parte, cos’è la frontiera? «Una linea fatta di infiniti punti, infiniti nodi, infiniti attraversamenti. Ogni punto una storia, ogni nodo un pugno di esistenze. Ogni attraversamento una crepa che si apre. È la frontiera» (Alessandro Leogrande, La frontiera).