Essere alfabeta significa possedere l’alfabeto (o almeno le prime due lettere di quello greco) cioè lo strumento essenziale per leggere, scrivere e far di conto. Quanto lo si possegga e quale sia la maestria nell’utilizzo implica esercizio, costante e intenso, intrapreso precocemente. È uno strumento di comunicazione, che caratterizza la qualità e intensità di una relazione, è il risultato della conoscenza, consapevolezza e comprensione acquisite con abilità e competenze ulteriormente ampliabili.
L’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) a fine 2024 ha riportato che il 35% degli adulti italiani, tra i 16 e 65 anni di età, può essere definito come analfabeta funzionale, mentre la media Ocse è del 26%. Quindi oltre un terzo degli italiani sa leggere, ed esprimersi in modo sostanzialmente corretto, ma non è in grado di raggiungere un adeguato livello di comprensione e analisi di un discorso complesso, di articoli di giornale, regolamenti o bollette. Si trova in difficoltà nell’esecuzione di calcoli matematici semplici, come gli sconti in un negozio, la tenuta della contabilità casalinga, o nell’utilizzo degli strumenti informatici. Sconta una conoscenza superficiale degli eventi storici, politici, scientifici, sociali ed economici. Il fenomeno è trasversale e interessa l’intera popolazione italiana (e non solo) seppur con distribuzione diversa per età, profilo socio-economico, regione di residenza. Situazione preoccupante pensando alla creazione, la circolazione e la disponibilità a credere a notizie false in un’epoca di potere dei social network, in particolare, alla disinformazione legata ai temi medico sanitari in una popolazione già analfabeta in tema di salute.
Certo, Non è mai troppo tardi per migliorare, come ha dimostrato l’attività del maestro Alberto Manzi, che in televisione agli inizi degli anni ’60 insegnava al 10% di italiani analfabeti a comprendere lettere e numeri, a comporre parole e frasi, a fare i conti della spesa o della retribuzione delle ore lavorate, a leggere. Si stima che circa un milione e mezzo di italiani e italiane siano riusciti a prendere la licenza elementare grazie alla trasmissione.
Trent’anni più tardi, l’autorevole linguista Tullio De Mauro si adoperò per il recupero e il contenimento dell’analfabetismo funzionale, purtroppo dimenticato presto dai responsabili della cultura e delle politiche educative italiane.
Cominciamo dalla literacy
Oggi però più che sostenere l’alfabetismo o al contrario contrastare l’analfabetismo funzionale (visto che tutti, più o meno, vanno a scuola), dovremmo garantire e potenziare lo sviluppo della literacy: «l’insieme di competenze che utilizzano le capacità di identificare, comprendere, interpretare, creare, comunicare e computare utilizzando materiale scritto derivante da vari contesti. Literacy identifica un apprendimento continuo nelle persone quando tendono ai loro traguardi, allo sviluppo della loro conoscenza e delle loro potenzialità e alla piena partecipazione alla vita delle comunità e delle società» secondo la definizione dell’UNESCO.
Così intesa, l’alfabetizzazione non è un processo passivo ma attivo, l’esito, anche inconsapevole quando si è esposti, di un’azione programmata, continua, appropriata, di relazione. È per esempio nell’ambito della genitorialità lo strumento della lettura ad alta voce ancor prima della nascita, perché leggere con una certa continuità ai bambini ha una positiva influenza sul loro sviluppo intellettivo, linguistico, emotivo e relazionale, con effetti significativi per tutta la vita adulta. È dare spazio alla tanto osteggiata educazione all’affettività e alla sessualità (Comprehensive Sexuality Education) a partire dal nido per prevenire la disinformazione (anche dei genitori ed educatori) e contrastare fenomeni come la violenza di genere e il cyberbullismo. È combattere l’illiteracy.
Nasce la health literacy
Negli anni ‘70, relativamente alla capacità delle persone di leggere e comprendere materiale scritto di tipo sanitario, è emerso il concetto di health literacy (alfabetizzazione sanitaria). Ovviamente non solo in Italia, sebbene da noi in ritardo rispetto ad altri Paesi. Una buona idea di cosa voglia dire per la realtà italiana la health literacy ce la danno due progetti dedicati: quello del Centro di Documentazione per la Promozione della Salute della Regione Piemonte e quello dell’Azienda Unità Sanitaria Locale di Parma. Da entrambe queste fonti si ricava che in fondo la health literacy è in estrema sintesi un aggiornamento della vecchia educazione sanitaria ed è finalizzata ad aiutare le persone a fare le migliori scelte personali, sia in tema di prevenzione e promozione della salute che di coinvolgimento quando pazienti (engagement) nella gestione del percorso di cura.
Il concetto di health literacy è naturalmente evoluto verso una dimensione non più solo individuale, come si ricava anche da questa recente definizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità: «l’insieme delle conoscenze e delle competenze personali che si accumulano attraverso le attività quotidiane, le interazioni sociali e attraverso le generazioni. Le conoscenze e le competenze personali sono mediate dalle strutture organizzative e dalla disponibilità di risorse che consentono alle persone di accedere, comprendere, valutare e utilizzare informazioni e servizi in modo da promuovere e mantenere una buona salute e un buon benessere per sé e per chi le circonda».
Ma il concetto di health literacy è andato via via ulteriormente ampliandosi nella definizione e nei contenuti in virtù della complessità delle conoscenze acquisite, anche in campo sanitario, e dell’aumento dei diritti negati per la salute ovunque nel mondo: le disuguaglianze della salute in termini di deprivazione socioeconomica, livelli educazionali e standard di vita materiale. È il concetto della public health literacy, imposto drammaticamente dalla illiteracy, non solo nazionale, smascherata dalla pandemia di Covid-19. È la condizione attraverso la quale persone e gruppi possono ottenere, processare, comprendere, valutare e mettere in pratica le informazioni necessarie per rendere le decisioni di sanità pubblica utili per la comunità. Quella condizione a cui non eravamo preparati – e non lo siamo neppure ora.
Infine, la public health literacy
Con la public health literacy si fa, quindi, un ulteriore passo avanti da quelle che sono le prestazioni aderendo alle quali si presume migliori lo stato di salute delle singole persone (quello della health literacy) per arrivare ad assumere attitudini e obiettivi di salute collettivi nell’ambito di una comunità. È quindi un coinvolgimento, un allargamento anche delle responsabilità nell’ambito di un modello sociale di salute: la comunità deve essere consapevole che ci sono determinanti sociali che influenzano il benessere e lo stato di salute e deve agire di conseguenza. Il sistema sanitario per essere adeguato dovrebbe essere in grado di ridurre le disuguaglianze sociali e le relative cause anche in tema di salute. Serve, quindi una comunità alfabetizzata in grado di monitorare e tutelare il proprio stato di salute. La salute, in quanto bene comune, è indivisibile: la salute degli uni dipende da quella di tutti gli altri (e il concetto di One Health, parola d’ordine oggi di moda, ma non per questo meno vera, lo estende all’intero pianeta e a tutte le relazioni tra ogni forma di vivente). Quindi, in questo senso la public health literacy va intesa come uno dei livelli di garanzia della sanità pubblica del servizio sanitario universalistico.
Accanto alla dimensione sociale della salute la public health literacy deve includere anche la dimensione programmatoria e organizzativa dei processi di tutela della salute. Nel mondo reale le risorse per questi processi sono limitate, a partire dal personale di cui si può disporre. La loro gestione deve mantenere in equilibrio i tre macrolivelli assistenziali: la assistenza ospedaliera, la assistenza territoriale e le attività di prevenzione e promozione della salute. Storicamente esiste uno sbilanciamento a favore del ruolo degli ospedali, spesso sviluppati in modo ipertrofico e dispersivo benché si sappia che le risposte ai problemi della cronicità stanno altrove.
In sostanza, come la health literacy dovrebbe aiutare le migliori scelte individuali, così la public health literacy dovrebbe aiutare a fare le migliori scelte di politica sanitaria.
Una tenera utopia?
Purtroppo tutto questo è una tenera utopia, ma essenziale per proseguire e perorare la causa. La casa della comunità, la casa del bene comune, che potrebbe essere la sede ideale e privilegiata della scuola sul campo di public health (di tutti gli ordini da quella d’infanzia a quella degli studi superiori in public health) trova difficoltà a operare. Eppure, già dal 23 maggio 2022 un decreto ministeriale prevede che ogni 40-50 mila abitanti sia costituita una Casa della comunità, cioè un «luogo fisico di facile individuazione al quale i cittadini possono accedere per bisogni di assistenza sanitaria e socio-sanitaria». E nel Pnrr sono previste risorse per edificarle laddove non esistano (un po’ meno per dotarle del personale necessario).
Per far funzionare le Case della Comunità serve, però, una politica matura, una cultura di sanità pubblica che fiorisca diffusa libera e indipendente da vincoli politici o di categoria (quindi anche da università, ordini professionali, rappresentanze ristrette) e che sia condivisa coi cittadini e le cittadine. Una cultura che dovrebbe mirare sia a riequilibrare i livelli di salute tra i vari gruppi sociali sia a riequilibrare il peso tra servizi territoriali (Distretti e Dipartimenti di prevenzione) e servizi ospedalieri.
Dove queste condizioni non esistono, e quindi nella grande maggioranza delle Regioni, vanno create progressivamente, anche attraverso decreti come quello sulla assistenza ospedaliera (il DM 70 del 2015) e quello sulla assistenza territoriale (DM 77 del 2022) che però vanno contestualizzati e applicati con il sostegno di iniziative che aumentino la public health literacy e quindi la competenza sui temi della sanità pubblica a tutti i livelli e in tutti gli ambienti (politica e media compresi).
Questo tema della literacy ricorre anche in alcuni dei documenti e appelli per il rilancio del Servizio Sanitario Nazionale che periodicamente si affacciano alla ribalta dell’attenzione pubblica e che anche Scienza in rete ha segnalato. Al punto 10 di quello degli scienziati ci si domanda retoricamente se i cittadini siano consapevoli della complessità del tema salute e abbiano gli strumenti per essere protagonisti. A questa domanda il documento risponde che: «rendere i cittadini protagonisti in ambito sanitario necessita di un grande investimento – di portata strategica, e prevalentemente culturale – per aumentare le loro conoscenze scientifiche e la consapevolezza di come tutelare la loro salute. Questo potrebbe consentire ai cittadini di comprendere come le politiche ambientali, urbane, industriali, del territorio, sono determinanti fondamentali nella tutela e nella promozione della loro salute, e uscire dalla diade fideismo-negazionismo. Per il punto precedente e per questo, il Servizio Sanitario Nazionale può essere uno straordinario promotore di cultura e di iniziative intersettoriali, se tutti lo sosteniamo come patrimonio condiviso».
Invece al punto 5 dei principi di rilancio del SSN proposti con una forte impronta aziendalista da un gruppo di esperti del settore, di istituti e università nazionali, si afferma che: «la partecipazione intesa come capacità dei cittadini singoli e/o organizzati, di orientare il sistema in modo che soddisfi i loro bisogni, rimane fondamentale per sviluppare ownership collettiva e per mantenerne la natura di fattore di coesione sociale. L’empowerment del cittadino sano e del paziente inizia con un lavoro attivo: a) sulla sua literacy sanitaria; b) sulla sua conoscenza del SSN, inteso come bene collettivo che offre vantaggi, ma dentro regole e perimetri che la comunità si è data; c) sul sostegno alla elaborazione dei lutti nei passaggi di stadi di salute nel corso della vita, per generare aspettative adulte, fondamentali per l’aderenza alle terapie e ai corretti stili di vita».
L’ultimo in ordine di tempo, il documento della SCOSSA (La Società Civile Sostiene il Servizio Sanitario nazionale) non fa esplicito riferimento alla public health literacy, ma alle priorità espresse dalla popolazione, alla salute come bene comune, alle evidenze scientifiche come base di conoscenza. Un approccio più avanzato, dunque, che mira attraverso la literacy a un community health empowerment, cioè al miglioramento del benessere di salute delle comunità attraverso una crescita della consapevolezza nelle scelte.
A chi tocca?
La cerimonia di apertura delle Olimpiadi di Londra, nel luglio 2012, ha scelto di includere tra i valori fondanti della società inglese il servizio sanitario nazionale, rappresentato dal personale sanitario impegnato in un balletto insieme ai pazienti tra le corsie di un ospedale. Cerimonia kitsch, d’accordo, ma con una forza che finora è mancata al nostro sistema sanitario, che non ha mai dedicato competenze e risorse per portare a tutte le persone che vivono in questo Paese la consapevolezza dei suoi principi universalistici. Una mancanza che scontiamo ogni giorno di più.
Tuttavia, se siamo d’accordo sul ruolo fondamentale della health literacy e della public health literacy rimane a questo punto aperta una domanda fondamentale: chi, dove e come deve impegnarsi a diffonderle e migliorarle?