Pubblicato il 22/08/2025Tempo di lettura: 5 mins

Chi non ha mai pensato, almeno in una calda sera estiva, di liberarsi per sempre delle zanzare? Una possibilità che oggi non è più teorica, e non ha certo il solo ruolo di risolverci il fastidio delle punture o delle svegli notturne per un ronzio troppo vicino all’orecchio. Lo scopo, infatti, sarebbe di portata ben più ampia: quello di eliminare in modo definitivo le malattie di cui questi insetti sono vettori.  A partire dalla malaria, che in effetti è stata la leva dello sviluppo di quella biotecnologia nota come gene drive – teoria una ventina d’anni fa, possibilità oggi.
Alla storia del gene drive è dedicato
Reazione genetica a catena. Capovolgere le regole dell’evoluzione (il Mulino, 2025) di Andrea Crisanti, medico e microbiologo, professore all’Università di Padova e all’Imperial College di Londra – istituzione nella quale ha appunto avuto un ruolo di primo piano nello sviluppo di questa biotecnologia. In effetti, il saggio è anche, almeno in parte, una biografia: quella di uno scienziato che, nel ripercorrere parte della sua carriera accademica, ripercorre anche lo sviluppo del gene drive con gli occhi di chi l’ha visto (e ha contribuito a farlo) nascere. 

A dirla tutta, è anche, sempre almeno in parte, un saggio di storia, perché Crisanti non trascura di dedicare molto spazio alla malaria. L’abbiamo detto, è da questa malattia che parte tutto, e appare dunque dovuto, oltre che ragionevole, ripercorrere anche quel filone di studi che ha permesso di capirne l’origine e le modalità di trasmissione. Filone che inevitabilmente ci porta a qualche secolo fa, perché è solo verso la fine dell’Ottocento che, grazie ad alcuni scienziati, italiani compresi (come quel Camillo Golgi che darà il nome all’apparato cellulare, e ancor di più Giovanni Battista Grassi), fu possibile capire non solo che non è una generica mala aria a causare la malattia. Ci vogliono, invece, un protozoo (del genere Plasmodium) e una zanzara. Ma non una qualunque: serve una zanzara del genere Anopheles, infettata dal plasmodio. E, sia chiaro, la zanzara dev’essere femmina: vale la pena ricordare, infatti, che solo le femmine di zanzara sono ematofaghe e pungono, per nutrire con il sangue le uova della generazione successiva.

Insomma, questa la base. Lo sviluppo, quello che Crisanti ripercorre in modo tanto chiaro quanto appassionato, è la storia del gene drive. Una storia che ha qualche altra premessa: per esempio, i tentativi di liberarsi dalla malaria con il DDT, con le zanzariere e gli insetticidi. Tentativi che hanno avuto la loro efficacia, ma anche i loro fallimenti, in primis a causa dello sviluppo di resistenza da parte delle zanzare. Tanto che, nonostante la possibilità di prevenzione e la disponibilità di cure, tutt’oggi la malaria, come evidenzia anche l’Organizzazione mondiale della sanità, è responsabile di milioni di morti, per la stragrande maggioranza in Africa e per la stragrande maggioranza tra i bambini al di sotto dei cinque anni. 

Da cui la domanda di partenza: e se ci fosse un modo per liberarsene per sempre? Crisanti ripercorre la storia del gene drive dalle origini, verso la fine degli anni Novanta, con i primi passi per modificare geneticamente le zanzare, «l’animale più pericoloso» (almeno per la nostra specie), come le definisce Crisanti. Un problema non solo tecnico, ma anche pratico: se anche si può creare una zanzara geneticamente modificata in modo che non possa trasmettere la malaria, come farla diffondere? 

Perché alle leggi della genetica non si scappa. Come spiega in modo molto chiaro Crisanti, se anche avessimo una zanzara con un cromosoma geneticamente modificato, una volta che si riproducesse con un individuo non modificato: «La probabilità che la modificazione genetica sia trasmessa alla generazione successiva è esattamente del 50% e rimarrà sempre a questo livello nelle generazioni successive. In assenza di effetti sulla capacità riproduttiva, la probabilità di trasmettere un tratto genetico è uguale a quella di ereditarlo e dipende dalla frequenza iniziale del tratto nella popolazione». In breve, per avere il 90% delle zanzare modificate in modo da non trasmettere il plasmodio «bisognerebbe rilasciare un numero di zanzare nove volte superiore a quello esistente in natura». Senza contare che, affinché il tratto si mantenga tra le generazioni, dovrebbe conferire un vantaggio riproduttivo.

È qui il deus ex machina del gene drive: “geni egoisti”, capaci di aggirare le leggi dell’ereditarietà di Mendel e che, se presenti su un cromosoma, sono in grado di copiarsi sull’altro. Assicurandosi, così, la trasmissione alle generazioni successive. 

Crisanti ne racconta lo studio dai primi tentativi fino all’avvento della tecnologia CRISPR-Cas9, oggi la più sfruttata per il gene drive: il gene modificato porta anche le istruzioni per tagliare l’allele selvatico (cioè quello “originale”, presente sull’altro cromosoma) e copiarvi la sequenza modificata, rendendo il cambiamento ereditario e rapido nella popolazione. Una vera e propria reazione genetica a catena, appunto, che può portare per esempio alla nascita di zanzare esclusivamente maschi, incapaci di pungere e trasmettere il plasmodio – e anche di riprodursi.

Si diceva che il gene drive è oggi ben più che teoria. Ciò non significa che sia già stato effettivamente utilizzato nell’ambiente reale, ma gli studi sperimentali sono più che avanzati. Crisanti ne accenna alla fine del testo, citando anche i sistemi più innovativi, capaci di essere autolimitanti e dunque più facilmente controllabili. Sono cenni, ed è comprensibile perché Reazione genetica a catena è una storia delle origini, non dell’oggi. Ma, e questo va detto, si sente un po’ la mancanza di una riflessione più ampia sulle possibili implicazioni di questa tecnologia, difficile da contenere geograficamente se messa in atto, dagli impatti ecologici poco prevedibili (al di là dei problemi sanitari, le zanzare, sia da adulte che allo stadio di larva, sono una parte importante di varie reti alimentari), e che insomma solleva vari dubbi etici non meno che scientifici. Certo, non sarebbe la prima volta che la nostra specie causa l’estinzione di un’altra, né che lo facciamo volontariamente – ma finora la volontarietà ha riguardato patogeni come il vaiolo, non interi generi di insetti. 

Comunque, per farsi venire i dubbi corretti bisogna innanzitutto conoscere ciò di cui si sta parlando. E questo Crisanti ci consente di farlo magnificamente. Offrendoci una storia che non è solo di ricerca, ma anche della passione che la anima: «Errori, insuccessi e frustrazioni non ci hanno mai scoraggiato né hanno demoralizzato i tanti ricercatori che si sono dedicati a questo progetto. Ci ha unito la consapevolezza di lavorare per lasciare alle generazioni future un mondo senza malaria».

A spasso con i coccodrilli del Cretaceo nel Villaggio del Pescatore

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