«Ai miei tempi qui era tutta campagna, ci hanno ripetuto i nostri nonni davanti alle periferie delle loro città. È probabile che ai nostri figli noi diremo lo stesso, non davanti ai palazzi di una metropoli ma di fronte al verde di un bosco che fino a pochi anni fa non esisteva: «Ai miei tempi, questa era tutta campagna».

L’Italia, infatti, è in piena riforestazione. Se le foreste globali diminuiscono a causa dell’aggressiva espansione della zootecnia, dell’estrazione mineraria e dell’urbanizzazione, in Italia e in Europa le cose si muovono nel verso opposto. Come mostra l’ultimo Inventario Nazionale delle Foreste, la superficie boschiva nel nostro paese è in crescita costante almeno dagli anni ‘80 e rappresenta, secondo le ultime rilevazioni, il 36,7% dell’intero territorio nazionale: 11 milioni di ettari, all’incirca quanto la Sardegna, Sicilia, Piemonte, Toscana e Campania messe insieme. Più di un terzo del territorio italiano è coperto da foreste. «Il bosco sta riconquistando ciò che era suo in passato. L’Italia dei tempi antichissimi, prima dell’impatto umano, era quasi tutta ricoperta da boschi», commenta Piermaria Corona, direttore del Centro di ricerca Foreste e Legno del CREA, che abbiamo interrogato sul tema. 

I motivi dietro alla crescita dei boschi italiani sono vari e stratificati. Hanno giocato un ruolo importante le battaglie ambientaliste e un’attenzione crescente a livello culturale, poi trasposta nella legislazione, dal Testo Unico Ambientale del 2006, all’inserimento della tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi nell’Articolo 9 della Costituzione nel 2022. Ma accanto a un rinnovato sentimento ambientalista, ciò che ha fatto ricomparire i boschi nel nostro paese è stata la deruralizzazione, ovvero l’abbandono costante e progressivo delle campagne.

Umberto Eco lo definì «il più visibile del cambiamenti ambientali del XX secolo». Nell’Ottocento solo una persona su 25 viveva in città, all’inizio del Novecento una su dieci. Oggi, secondo il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (UNEP), più del 55% degli esseri umani vive in città, un dato destinato a crescere fino al 68% da qui al 2050. Nel corso di un secolo, complice anche la rapida crescita demografica, metà della popolazione globale ha trovato casa nelle città, in un cambiamento del modo vivere senza precedenti. Lo spostamento dai campi alle città non ha cambiato solo i centri urbani, cresciuti esponenzialmente, affollati, inquinati, espansi anche in zone ex rurali (la nascita della “campagna urbanizzata”), ma ha trasformato anche le campagne, modellate dalla presenza umana per secoli e, quasi improvvisamente, rimaste abbandonate a sé stesse. Le masse contadine del Novecento si sono spostate nelle città cambiando stile di vita e nelle aree agricole senza gestione, coltivazioni né bestiame, si sono formati dei nuovi ambienti boschivi proprio grazie all’abbandono umano: i boschi di neoformazione.

La non gestione di questi spazi non è solo un dato di fatto, ma spesso una deliberata scelta gestionale. Solo il 18% della superficie forestale del nostro paese, secondo il report sullo Stato delle Foreste Italiane 2020, è soggetto a piani di gestione. I boschi italiani crescono, ma scegliamo attivamente di non gestirli. Non si tratta solo di una questione economica e di comodità (i piani di gestione forestale sono costosi e impegnativi sia per i singoli proprietari che per le amministrazioni locali): la scelta di non gestire gli ambienti naturali poggia anche su un assunto filosofico.

L’immaginario occidentale moderno è dominato dall’idea di una natura incontaminata, la cui integrità e autonomia dagli esseri umani sono fonti del suo valore. L’impatto antropico sulla natura è distruttivo: l’abbiamo deturpata e manipolata fino a distruggerne molte parti e adesso dobbiamo proteggerla dalle nostre stesse mani. Questa visione di umani e natura come sfere dicotomiche e conflittuali, condivisa dagli ambientalisti dell’Ottocento ideatori dei primi parchi e riserve naturali, rinsalda la strategia di “lasciare la natura a sé stessa per proteggerla”. L’approccio è simile a quello delle riserve naturali integrali, aree protette da qualsiasi attività antropica in cui non avvengono lavori di gestione (dalla protezione dai fuochi all’uso delle risorse).  

Abbandonare i terreni ex agricoli e vederli rinaturalizzati non può che essere qualcosa di positivo, dunque. Eppure, le rilevazioni sulle caratteristiche ecologiche dei boschi di neoformazione suggeriscono che la non gestione potrebbe essere una strategia insufficiente se non dannosa. Una ricolonizzazione spontanea non gestita infatti può tendere allo sviluppo di boschi dall’architettura impoverita. Le loro funzioni ecologiche sono limitate rispetto ai mosaici agro-forestali sviluppati in secoli di interazioni e relazioni umano-natura, fatti di campi, praterie, siepi e altri elementi chiave per la diversificazione degli ecosistemi e quindi per la protezione della biodiversità.

Durante gli eventi di ricolonizzazione prevalgono spesso le specie pioniere, ossia piante a rapido accrescimento capaci di occupare aree prive di copertura arborea a seguito di un disturbo ambientale, sia esso antropico o naturale. Tra queste, in diverse occasioni osserviamo che la colonizzazione è guidata da specie esotiche invasive (introdotte o in espansione che danneggiano la biodiversità e riducono i benefici ecosistemici) che competono con le specie locali e riducono la variabilità vegetale. La robinia e l’ailanto sono due esempi frequenti: colonizzano i terreni in abbandono, dettando la struttura del soprassuolo e riducendo gli spazi disponibili per le altre piante. L’effetto non è solo strutturale. Queste specie possono alterare i cicli dei nutrienti e, attraverso l’emissione dalle radici di composti chimici nel suolo, inibiscono la germinazione e lo sviluppo della vegetazione autoctona, arborea, arbustiva ed erbacea (un meccanismo chiamato “allelopatia”), limitando soprattutto la capacità di sostenere la biodiversità in questi contesti.

«Queste nuove formazioni forestali sono spesso meno resilienti a fenomeni di disturbo come gli incendi», spiega Piermaria Corona. «Se le lasciamo completamente all’evoluzione spontanea, la fornitura di tutta una serie di utilità ecosistemiche non sarà così efficace ed efficiente come quelle che si possono ottenere attraverso una gestione selvicolturale mirata». Non è quindi sufficiente misurare gli ettari guadagnati: dobbiamo capire che tipo di boschi stiamo ottenendo e quali benefici offrono. I boschi di neoformazione sono infatti in grado di apportare benefici concreti: proteggono il suolo dal dissesto idrogeologico e immagazzinano carbonio. Il punto è che questi benefici non bastano da soli se la ricolonizzazione avviene a scapito della perdita di ecosistemi fragili come prati e pascoli, determinanti per la conservazione di numerosissime specie autoctone. «La perdita delle aree aperte, soprattutto nelle zone di montagna e alta collina, comporta la riduzione di spazi e habitat fondamentali per tante specie animali e vegetali collegate a queste zone», specifica ancora Corona. 

La Strategia Forestale Nazionale, il piano legislativo italiano per la gestione sostenibile delle foreste, sintetizza bene questo approccio: serve una gestione attiva e adattativa, capace di leggere i diversi contesti territoriali con strumenti legislativi dedicati. Non si tratta più di “lasciare in pace” la natura per principio, ma di relazionarci ai boschi con scelte gestionali specifiche. Attraverso il contenimento delle specie invasive, la tutela delle aree aperte, la conservazione e il restauro di mosaici agro-forestali, possiamo trasformare la ricolonizzazione in un’opportunità per creare ecosistemi forestali più ricchi e resilienti.

Rimane poi la questione fondamentale nell’approccio alle questioni ambientali: il tempo. Le dinamiche di sviluppo degli ecosistemi forestali evolvono in decenni, ma le decisioni politiche e le scelte dei proprietari si muovono su scale molto più brevi. Il “disegno” su scale temporali più ampie è difficile da vedere e per questo servono strumenti nuovi per superare il divario tra la percezione immediata dell’appagamento umano e le dinamiche naturali. Uno di questi è la comunicazione. Riguardo a questo aspetto, Corona ci ha raccontato che all’interno della Strategia Forestale Nazionale viene promossa la creazione di un piano dedicato di comunicazione ben strutturato: «È quello che manca al nostro paese, secondo me ce n’è assolutamente bisogno. Ora si tratta di trovare i fondi necessari, ma sono abbastanza fiducioso che nel giro di qualche tempo si possa arrivare a questo risultato». 

I boschi di neoformazione sono una grande occasione, ma anche una grande responsabilità. Non possiamo più permetterci di considerarli come meri regali della natura da lasciare a sé stessi. Sono necessarie una nuova cultura e una nuova coltura dinamiche e capillari del bosco, capaci di riconoscere il valore della spontaneità, ma anche di intervenire con intelligenza, per trasformare questi spazi in ecosistemi resilienti, ricchi e vivi.