Il 23 luglio, la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia ha pubblicato il tanto atteso parere consultivo sugli obblighi degli Stati in materia di cambiamento climatico. Primo fra tutti l’obbligo degli Stati di adoperarsi per mantenere la temperatura media del pianeta entro 1,5°C rispetto al periodo preindustriale. «Una vittoria per il nostro pianeta, per la giustizia climatica e per il potere dei giovani di fare la differenza», così l’ha definita António Guterres, Segretario Generale delle Nazioni Unite. La storica decisione arriva infatti in risposta a una richiesta presentata nel 2023 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, su iniziativa dello Stato insulare di Vanuatu, uno dei Paesi maggiormente minacciati dall’innalzamento del livello del mare dovuto al cambiamento climatico, insieme al gruppo di giovani studenti “Pacific Island Students Fighting Climate Change”.

I precedenti

Il parere giunge a meno di un mese dalla decisione dalla Corte Interamericana dei Diritti Umani sulla medesima questione e a un anno da quella del Tribunale Internazionale sul Diritto del Mare. I pareri consultivi, forniti dai tribunali internazionali su richiesta di Stati o di organi delle Nazioni Unite, non hanno efficacia vincolante. Nonostante ciò, svolgono un ruolo fondamentale nell’interpretazione e nello sviluppo del diritto internazionale: contribuiscono infatti a consolidare lo “stato dell’arte” del diritto internazionale, orientando future decisioni giudiziarie.

Il primo parere in materia di cambiamento climatico, emesso nel 2024 dal Tribunale sul Diritto del Mare, ha riconosciuto l’obbligo, per gli Stati parte della Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare, di adottare “tutte le misure necessarie” per ridurre le emissioni antropogeniche di gas serra, qualificate come forma di inquinamento marino. Ha inoltre intimato agli Stati di assicurarsi che attori non-statali sotto la loro giurisdizione ottemperino a questi obblighi.

La Corte Interamericana, da parte sua, ha riconosciuto l’esistenza di un diritto autonomo ad un ambiente sano, sia delle generazioni presenti che di quelle future. Tale diritto andrebbe interpretato in chiave intersezionale, riconoscendo che l’emergenza climatica esacerba discriminazioni e disuguaglianze preesistenti. Nel parere si afferma inoltre che gli Stati hanno l’obbligo imperativo di mitigare il cambiamento climatico, adattarvisi e prevenire violazioni dei diritti umani ad esso collegate, agendo con una “diligenza rafforzata”. Infine, la Corte Interamericana ha delineato specifici obblighi come il diritto della popolazione di accesso alle informazioni, in particolare alle migliori evidenze scientifiche disponibili.

Che cosa ha detto la Corte Internazionale

Da ultimo, è ora il turno della Corte Internazionale di Giustizia, l’organo giudiziario delle Nazioni Unite. La cosiddetta “World Court” si è pronunciata su due questioni:

  1. Quali sono gli obblighi degli Stati, ai sensi del diritto internazionale, volti a garantire la protezione del clima e dell’ambiente dalle emissioni antropogeniche di gas serra;
  2. Quali sono le conseguenze giuridiche per gli Stati che abbiano causato danni significativi al clima e all’ambiente.

Rispondendo alla prima domanda, la Corte ha in primo luogo esaminato gli obblighi derivanti dai principali trattati ambientali multilaterali, in particolare la Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (1992), il Protocollo di Kyoto (1997), l’Accordo di Parigi (2015) e la Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare (1994). Ha interpretato gli obblighi contenuti in queste convenzioni in modo particolarmente robusto, chiarendo anche che l’obiettivo dell’Accordo di Parigi di limitare la temperatura media globale a 1.5°C è giuridicamente vincolante, e che gli Stati sono tenuti a adottare misure per mitigare le emissioni di gas serra e per adattarsi agli effetti del cambiamento climatico. 

La Corte ha sottolineato che gli Stati devono agire seguendo i principi – insiti nei trattati stessi – dell’equità intergenerazionale e dello sviluppo sostenibile, ossia uno sviluppo che “soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri”. Ha anche evidenziato la necessità di tener conto del principio delle “responsabilità comuni ma differenziate”. Secondo quest’ultimo principio, pur condividendo la responsabilità, i Paesi hanno oneri differenziati nella lotta al cambiamento climatico, in base ai loro livelli diversi di sviluppo economico e tecnologico. In linea con questa regola, la Corte ha ribadito, sulla base dell’UNFCCC, che i Paesi industrializzati hanno una responsabilità particolare nel guidare la lotta al cambiamento climatico.

Quanto al diritto del mare, la Corte dell’Aja ha confermato ciò che era già stato detto dal Tribunale Internazionale sul Diritto del Mare, aggiungendo che la Convenzione delle Nazioni Unite non impone agli Stati di aggiornare le proprie coordinate marittime in caso di regressione costiera dovuta all’innalzamento del livello del mare – questione di rilievo per i diritti di pesca e le risorse naturali – e che gli Stati a rischio di sommersione potranno mantenere la loro sovranità statale anche una volta scomparsi.

Viene poi individuata anche dalla Corte internazionale l’esistenza di un diritto ad un ambiente sano, essenziale per il godimento di altri diritti umani. Di conseguenza, gli Stati hanno l’obbligo di rispettare e assicurare l’effettivo godimento dei diritti umani anche adottando le misure necessarie per proteggere il clima e l’ambiente.

Non vanno rispettati solo i trattati. C’è anche il diritto consuetudinario

Oltre agli obblighi derivanti dai trattati, la Corte ha riconosciuto l’esistenza di obblighi consuetudinari in materia di cambiamento climatico. Il diritto consuetudinario internazionale è un’importante fonte del diritto internazionale che vincola tutti gli Stati, a differenza dei trattati anche in assenza di un consenso espresso, e si basa su una pratica costante e uniforme accompagnata dalla convinzione che tale pratica sia giuridicamente obbligatoria (“opinio juris”).

Secondo la Corte, esiste un obbligo consuetudinario per gli Stati di garantire la protezione del clima e dell’ambiente dalle emissioni antropogeniche di gas a effetto serra, agendo con dovuta diligenza (due diligence) per prevenire danni ambientali significativi. Si tratta di uno standard di due diligence rafforzato, «che richiede non solo l’adozione di misure ambientali appropriate, ma anche una particolare attenzione nella loro implementazione». Il principio dell’«obbligo di prevenire danni transfrontalieri» era già stato affermato nel caso del Canale di Corfù del 1949, e, più di recente, nella sentenza sul caso Pulp Mills del 2010, dove la Corte aveva ribadito l’obbligo per gli Stati di «utilizzare tutti i mezzi a loro disposizione per evitare che attività svolte nel loro territorio o sotto la loro giurisdizione causino danni significativi all’ambiente di altri Stati».

Perché questo obbligo si applichi, deve esserci un rischio di un danno significativo all’ambiente, che dipende dal contesto e va valutato sulla base delle migliori conoscenze scientifiche disponibili, come i rapporti del Gruppo Intergovernativo sul Cambiamento Climatico (IPCC).

Infine, la Corte ha ricordato l’esistenza di una regola consuetudinaria che impone agli Stati di cooperare in modo continuo – obbligo anche derivante dall’Articolo 1 della Carta delle Nazioni Unite – e in buona fede per proteggere il clima e l’ambiente, in quanto risorse globali condivise. Infatti, come affermato nel caso Pulp Mills, «questi obblighi diventano tanto più essenziali quando la risorsa condivisa può essere protetta solo attraverso una stretta e costante cooperazione tra gli Stati interessati». Nell’analizzare il rapporto tra trattati e diritto consuetudinario, la Corte ha sottolineato come queste due fonti del diritto internazionale debbano completarsi reciprocamente e vadano interpretate in modo armonico, secondo il principio di “integrazione sistemica”.

Lo Stato che non provvede a contrastare il cambiamento climatico è colpevole

Passando alla seconda domanda posta alla Corte, il parere afferma, in una novità significativa, che la violazione di uno degli obblighi climatici sopra citati costituisce un atto illecito internazionale, che comporta la responsabilità dello Stato autore della violazione. 

Tale responsabilità si configura quando la condotta illecita è compiuta da un qualsiasi organo statale, come già affermato nel caso Armed Activities on the Territory of the Congo del 2005. Qualora invece l’autore della condotta sia un attore privato, lo Stato può essere considerato comunque responsabile se non abbia agito con la dovuta diligenza, ossia non abbia adottato misure adeguate a limitare le emissioni prodotte da soggetti privati sotto la sua giurisdizione. Questo legittima quindi gli Stati ad imporre, per esempio alle società petrolifere che ancora si muovono con grande libertà e spregiudicatezza nelle loro strategie industriali, obiettivi stringenti di riduzione delle emissioni. E a maggior ragione a difendersi contro quelle società che accusano gli Stati di penalizzarle con politiche troppo restrittive, come avvenuto per esempio in Germania e nei Paesi Bassi. Il parere della Corte rafforza anche le cause legali contro gli Stati per inadempienza nell’azione climatica (si veda la causa Giudizio Universale in Italia), e indirettamente anche le cause contro le società di combustibili fossili.

La scienza torna al centro

La Corte riconosce che, nel contesto del cambiamento climatico, può risultare complesso invocare la responsabilità internazionale di uno Stato. Ciò è dovuto al fatto che le emissioni di gas serra si estendono nel tempo, provengono una pluralità di Stati e producono danni nei confronti di altrettanti Stati. Nonostante ciò, la Corte osserva, ponendo ancora una volta la scienza al centro dell’attenzione, che è possibile determinare il contributo totale di ciascuno Stato alle emissioni globali, tenendo conto sia di quelle storiche che di quelle attuali. Perciò, ogni Stato danneggiato può autonomamente invocare la responsabilità di ogni altro Stato che abbia violato i propri obblighi in materia climatica.

La Corte dell’Aja scrive poi che, per invocare la responsabilità internazionale in ambito climatico, non è necessario stabilire un nesso di causalità tra il comportamento esclusivo dello Stato e il danno. È sufficiente stabilire, in modo appositamente flessibile, un “nesso causale sufficientemente diretto e certo” tra un’azione e un danno ambientale, anche in presenza di diverse cause concomitanti. 

Una sfida comune

Infine, riconoscendo che «tutti gli Stati hanno un interesse comune nella protezione dei beni ambientali comuni, come l’atmosfera e l’alto mare», e che il cambiamento climatico rappresenta una «sfida condivisa da tutta l’umanità», la Corte afferma che gli obblighi fondamentali di mitigazione imposti dai trattati climatici hanno natura “erga omnes”. Ciò significa che ogni Stato ha interesse a far valere il rispetto di tali obblighi, e può dunque sollevare la questione della responsabilità di altri Stati, anche in assenza di un danno diretto. Tuttavia, unicamente gli Stati direttamente danneggiati potranno domandare la riparazione del danno da parte del responsabile; gli altri potranno solo chiedere di cessare l’atto illecito e di fornire assicurazioni e garanzie di non riparazione dell’atto, in base al diritto internazionale della responsabilità degli Stati.

Commenta il Center for International Environmental Law sul New York Times: «Nessuna sentenza da sola può porre fine all’era dei combustibili fossili; piuttosto, sono le persone che la utilizzeranno – nei contenziosi, nella legislazione e nei negoziati in tutto il mondo – che le daranno forza e renderanno le sue conclusioni impossibili da ignorare».