Pubblicato il 19/06/2025Tempo di lettura: 5 mins

È tempo di cerimonie di laurea, qui negli Stati Uniti. Università pubbliche e private in tutto il paese celebrano i propri neo-laureati, laureati magistrali e dottori di ricerca (Philosophiae Doctor o PhD, il titolo di studio più avanzato). Chiunque partecipi a una di queste cerimonie può constatare che sia studenti sia docenti provengono da paesi di tutto il mondo. Circa la metà dei PhD e il 29% dei medici che conducono attività di ricerca negli Stati Uniti sono immigrati. Il 50-70% dei ricercatori post-dottorali (postdoctoral fellows) nel nostro paese sono immigrati. Dopo l’esperienza americana, molti ritornano ai paesi di origine, ma molti restano – e spesso raggiungono posizioni di leadership in un sistema che è  fondamentalmente meritocratico e attribuisce fondi in modo rigorosamente competitivo.

Questa massa critica di scienziati di culture diverse è essenziale al successo della ricerca americana. Ciò è vero per molte discipline e in particolare per il mio campo, la ricerca biomedica, che si sta evolvendo verso il “team science”, scienza di squadra, in cui grandi coalizioni di scienziati perseguono obiettivi che sarebbero impossibili per un gruppo di ricerca limitato a un solo laboratorio o a una sola istituzione. Basti pensare a progetti come il programma di medicina di precisione All of Us, che si propone di reclutare un milione o più partecipanti per creare il database clinico e molecolare più grande del mondo (siamo a quota 863.000). I partecipanti a “All of Us” hanno inoltre l’opportunità di partecipare a ulteriori studi, come il Nutrition for Precision Health (Nutrizione per una salute di precisione), che studia le differenze individuali nella risposta alla dieta in 10.000 volontari. Lo studio RECOVER, che si prefigge di stabilire le cause, la patogenesi e il trattamento per il Long COVID, la temuta serie di proteiformi complicazioni croniche cui vanno incontro numerosi pazienti dopo il COVID, è una collaborazione tra decine di università che ha reclutato finora circa 30.000 soggetti tra adulti, pazienti pediatrici e donne in gravidanza. Questi studi richiedono la partecipazione di centinaia di esperti multidisciplinari, dalla medicina clinica alla biologia molecolare all’informatica. Il brain trust, il patrimonio di talento necessario per studi come questi sarebbe molto difficile se non impossibile da raccogliere senza la partecipazione di ricercatori venuti da tutto il mondo.

Questo modello è oggi in pericolo. Le proposte di drastici tagli al finanziamento pubblico della ricerca e il pesante clima politico in cui le università sono costrette a operare rischiano di avere effetti negativi sia sull’interesse di ricercatori stranieri a venire negli Stati Uniti sia sull’interesse di studenti americani a intraprendere carriere scientifiche. Un recente editoriale di Science, una delle più prestigiose riviste scientifiche del mondo,  a firma dell’editor-in-chief Holden Thorpe, scrive tra l’altro che «The United States will no longer have the same window into the technologies of the future» (gli Stati Uniti non avranno più la stessa vista sulle tecnologie del futuro). Gli Stati Uniti hanno prodotto innovazioni tecnologiche che hanno definito il mondo moderno, dall’internet all’intelligenza artificiale. Queste innovazioni sono fondate sulla ricerca di base finanziata pubblicamente. 

Se gli Stati Uniti dovessero rinunciare alla propria leadership scientifica internazionale, gli effetti globali potrebbero essere incalcolabili. Un esempio per tutti: Zhang Yongzhen, lo scienziato cinese che nel gennaio 2020 condivise per primo la sequenza del genoma del SARS-CoV-2 su un sito pubblico ospitato dai National Institutes of Health (NIH) a Bethesda e aperto a ricercatori di tutto il mondo. Letteralmente poche ore dopo la condivisione scienziati alla Moderna negli Stati Uniti stavano disegnando il loro futuro vaccino ispirandosi alle scoperte di un’immigrata ungherese, Katalin Karikò.  Allo stesso tempo, scienziati della BionTech, guidata da immigrati turchi in Germania, disegnavano il futuro vaccino Pfizer. L’esistenza di una comunità scientifica collaborativa internazionale, con uno scambio aperto di informazioni, ha permesso un’impresa scientifica e medica senza precedenti. Ma il coraggio del dottor Zhang non è stato premiato dal suo governo. Anzi, Zhang è stato licenziato e privato del suo laboratorio di ricerca, con vari pretesti, per aver condiviso dati che avrebbero salvato milioni di vite umane. Il controllo politico su questi dati avrebbe ritardato la risposta globale alla pandemia, costando vite umane in tutto il mondo.

Quando giunsi negli Stati Uniti nell’ormai lontano gennaio 1986, per perseguire una fellowship in genetica all’NIH, il Presidente Reagan dipingeva il nostro Paese come «a shining city on the hill», una città scintillante sulla collina, un ovvio riferimento ai centri della civiltà classica che hanno ispirato sia le istituzioni sia l’architettura di Washington: Roma e Atene. E per la ricerca biomedica, il paragone era appropriato. Il campus dell’NIH a Bethesda dava l’impressione di essere al centro del mondo scientifico. Si potevano scambiare idee con premi Nobel in caffetteria e ascoltare seminari dai più grandi scienziati del mondo praticamente ogni giorno. Migliaia di ricercatori dediti esclusivamente alla ricerca biomedica lavoravano giorno e notte per il bene dell’umanità, senza scopi di lucro. Quell’esperienza inimitabile cambiò la mia carriera e la mia vita, come quelle di migliaia di ricercatori di tutto il mondo. La grandezza dell’NIH risiedeva – e risiede tuttora – proprio nel suo carattere internazionale e apolitico, che si trasmette alle istituzioni accademiche sostenute da fondi NIH.

Quando la politica – di qualunque colore – ha cercato in passato di imporre alla scienza bavagli ideologici, i risultati sono stati catastrofici. Stalin, per esempio, detestava la genetica, a suo dire scienza “borghese”. Trovò un entusiastico seguace nel biologo “alternativo” Trofim Lysenko. Lysenko, basando le proprie ipotesi pseudoscientifiche sull’ideologia comunista, tentò di dimostrare che il grano può essere “addestrato” a crescere in condizioni sfavorevoli senza selezione genetica. Il risultato fu un colossale fallimento, con raccolti perduti e una grave carestia nell’Unione Sovietica. D’altro canto, l’eugenica, pseudoscienza nata in Gran Bretagna ed esportata negli Stati Uniti e in Germania, fu usata per giustificare il razzismo e il nazismo. La genetica moderna ha completamente sfatato questa pseudoscienza.

La scienza autentica, che usa esclusivamente l’evidenza per valutare le proprie teorie ed è pronta a rivedere qualunque teoria se l’evidenza lo richiede, è un valore universale e un patrimonio dell’umanità.

Una ingloriosa ritirata degli Stati Uniti dal ruolo di leader della ricerca biomedica internazionale sarebbe una calamità, non solo per la scienza ma per la società. La speranza è che il buon senso prevalga e che la “shining city on the hill” ritorni presto a brillare per il bene dell’umanità.