Un articolo pubblicato questo mese su JAMA e firmato da Jeremy W. Jacobs, immunologo della Vanderbilt University e da Allison P. Wheeler ed Erin Horstman, patologhe di Yale, mette in luce come il “caso Harvard” vada oltre i confini di una disputa universitaria in difesa della libertà accademica e dello scambio scientifico negli USA, per divenire un test sulla resilienza dello stesso sistema sanitario di quel paese (qui la riflessione di Lucio Miele sull’impatto per la ricerca)

I fatti: il 22 maggio 2025, il Dipartimento per la sicurezza interna degli Stati Uniti ha ordinato la rimozione dell’Università di Harvard dal Programma per studenti e visitatori di scambio (SEVP, Student and Exchange Visitor Program). Al SEVP è collegato il Sistema informativo per studenti e visitatori di scambio (SEVIS, Student and Exchange Visitor Information System), una piattaforma gestita dal Dipartimento della sicurezza interna per tenere traccia dei titolari di un visto per studenti F-1 e dei loro familiari a carico.  

L’amministrazione Trump ha giustificato l’azione adducendo preoccupazioni per la sicurezza del campus e presunti legami con nemici stranieri, senza tuttavia produrre prove che le sostenessero.

Già il giorno successivo all’ingiunzione, un giudice federale ha emesso un’ordinanza restrittiva temporanea che ne ha bloccato per il momento gli effetti, con la motivazione che il divieto d’iscrizione di nuovi studenti con visto F-1 e la messa in discussione dello status legale dei quasi 6.800 attualmente iscritti pone un rischio di «danno immediato e irreparabile» a molti livelli, primo fra tutti quello dell’assistenza sanitaria. L’azione del governo nei confronti degli studenti internazionali ha, infatti, messo allo scoperto la vulnerabilità dell’infrastruttura sanitaria statunitense, in cui i laureati in medicina stranieri costituiscono circa il 25% della forza lavoro medica. In gran parte sono cittadini non statunitensi che accedono a programmi di residenza e fellowship con visti di scambio per visitatori J-1, sponsorizzati dall’Educational Commission for Foreign Medical Graduates (ECFMG). I programmi F-1 e J-1 seguono percorsi amministrativi distinti, ma si basano entrambi sull’infrastruttura SEVIS che garantisce la conformità dei visti alle norme di sicurezza nazionale, con meccanismi già assai rigorosi. 
Vi è, quindi, una giustificata apprensione che l’azione esecutiva unilaterale per revocare la certificazione SEVP nel settore accademico (con scarse possibilità che abbia successo un eventuale ricorso) sia seguita da un’azione simile contro gli ospedali che completano la formazione dei medici neolaureati internazionali. 

La quota di posizioni di primo anno di specializzazione post-laurea occupata da laureati in medicina non statunitensi è cresciuta di quasi il 36% dal 2020, tanto che, quest’anno, il 17,7% era occupato da oltre 6.600 laureati in medicina non statunitensi, che hanno ricoperto il 33,8% dei posti di medicina interna, il 19,7% di quelli in pediatria, il 17,6% in medicina di famiglia, il 27,1% in anatomia patologica e il 24,1% in neurologia.  

L’attuale numero di medici non è sufficiente a soddisfare il fabbisogno sanitario nazionale USA e la loro distribuzione sia geografica sia per specializzazione non è omogenea. I modelli di pagamento, che da molto tempo favoriscono le cure specialistiche rispetto alle cure primarie pubbliche, disincentivano i tirocinanti statunitensi dall’esercitare la professione in settori e in luoghi socio-economicamente svantaggiati, cosicché ci sono dalle 5 alle 9 volte più probabilità che siano neo medici non statunitensi, invece di quelli statunitensi, ad aderire all’assistenza primaria e a lavorare in ospedali comunitari rurali o in aree con carenza di professionisti sanitari, in cui andranno a costituire la forza lavoro principale per l’erogazione dell’assistenza sanitaria. Quindi interruzioni anche a breve termine nell’elaborazione delle richieste di visto lascerebbero vacanti posizioni di specializzazione che si tradurrebbero in un danno all’assistenza, specialmente primaria e rurale. 

Nell’impossibilità di affrontare nel breve periodo i fattori sistemici che determinano il calo e alterano la distribuzione dei medici nella nazione, per compensare le sue carenze strutturali il sistema sanitario degli USA dipende da percorsi di visto manifestamente vulnerabili. Su un altro piano, il provvedimento del governo mette a rischio la reputazione, la portata e la diversificazione della medicina statunitense, minando la visione globale degli Stati Uniti come destinazione privilegiata per la formazione e la pratica clinica.

Pertanto – concludono gli accademici nel loro articolo – la preservazione del flusso di medici negli USA richiede che il Congresso e le agenzie federali considerino misure urgenti porre limiti all’autorità esecutiva sui programmi regolamentati da SEVIS, vietare le revoche dei visti in assenza di un’udienza pubblica formale, istituire una supervisione indipendente dell’applicazione delle norme sui visti e richiedere il benestare del Congresso prima di qualsiasi azione che possa interrompere la formazione medica. 
Dal canto loro, i centri medici universitari dovrebbero predisporre piani di emergenza per supportare nel tirocinio i laureati in medicina stranieri che si trovano ad affrontare improvvise minacce istituzionali o normative.

Carenze anche per l’infermieristica

Com’è ovvio, la debolezza strutturale della sanità statunitense non concerne solo il personale medico ma anche, nella stessa o in maggior misura, quello infermieristico. Lo documenta, sempre su JAMA, lo studio di Lenore S. Azaroff, dell’Edward Kennedy Community Health Center di Worcester, basato sui dati aggiornati al marzo 2024 del Current Population Survey (CPS), un campione rappresentativo a livello nazionale della popolazione statunitense non istituzionalizzata.

Già nel 2023 la carenza di operatori sanitari ha causato il funzionamento al di sotto della piena capacità di due terzi degli ospedali; attualmente, quasi la metà delle case di cura statunitensi limita i ricoveri a causa della scarsità di personale e solo il 19% di esse soddisfa i livelli minimi di organico che i Centers for Medicare & Medicaid Services hanno imposto di raggiungere entro il 2029. I piani dell’amministrazione Trump di espellere gli immigrati clandestini e alcuni con lo status di protezione temporanea (il TPS, che consente ad alcuni migranti provenienti da paesi con condizioni non sicure di vivere e lavorare negli Stati Uniti), nonché di aumentare le barriere legali anche per gli immigrati qualificati, rischiano di aggravare la carenza della forza lavoro sanitaria. 

Dallo studio risulta che nel 2024 lavoravano nel settore sanitario 2.319.224 immigrati cittadini naturalizzati e 1.064.147 non cittadini (6.97.584 documentati, 3.66.563 irregolari); tra i non cittadini, 1.61.405 provenivano da nazioni idonee per il TPS. In totale, 936.183 non cittadini lavoravano in contesti sanitari formali (607.713 documentati, 328.470 non documentati) e 127.964 non cittadini (89.871 documentati, 38.093 non documentati) lavoravano in professioni sanitarie in contesti non formali (presso famiglie o comunità). 
Gli immigrati non cittadini (documentati e irregolari) rappresentavano quindi circa il 4% del personale ospedaliero e ambulatoriale, il 7% degli operatori delle case di cura e almeno il 10% del personale delle agenzie di assistenza domiciliare e delle strutture non formali. 

Dei 55.802 medici senza cittadinanza americana più di tre quarti lavoravano in ospedale, dove rappresentavano l’8,8% di tutti i medici. Un totale di 1.48.445 di questi medici lavorava col ruolo di infermiere (di cui 98.536 in ospedale) e 4.43.958 con quello di assistente infermieristico.

In definitiva, oltre 1 milione di immigrati senza cittadinanza (un terzo dei quali senza documenti) lavora nel settore sanitario negli Stati Uniti (e gli autori dello studio ammettono che il CPS sottostima gli immigrati irregolari e i lavoratori non formali). Tra di loro c’è personale qualificato che sarebbe difficile sostituire, se l’immigrazione legale venisse ulteriormente limitata dai piani di Trump di espellere gli immigrati senza documenti e coloro che hanno perso lo status di TPS (per esempio, da Haiti e Venezuela). Anche la sentenza (attualmente sospesa) che pone fine al Deferred Action for Childhood Arrivals (DACA), il programma che protegge gli immigrati clandestini che arrivano negli Stati Uniti da bambini, potrebbe avere ripercussioni sul personale aggiuntivo, inclusi alcuni medici e infermieri. Le espulsioni potrebbero compromettere in particolare l’assistenza a lungo termine, in cui gli immigrati svolgono un ruolo importante. 

E in Italia?

Dai dati Eurostat 2021 emergeva che l’Italia, con i suoi 243.000 medici, era al 14° posto nell’Unione europea per numero di medici in rapporto agli abitanti (1:410), ma va tenuto conto che, entro la fine del 2025, 40.000 medici andranno in pensione. Inoltre, la cronica mancanza di fondi per la sanità, le scarse opportunità di carriera e il tuttora vigente nepotismo alimentano il fenomeno dei “cervelli in fuga” all’estero. 

Per quanto riguarda il settore infermieristico, secondo i dati Ocse, in Italia ci sono 6,5 infermieri ogni 1.000 abitanti, contro una media UE di 8,4.

Una recente rilevazione coordinata da Foad Aodi, fisiatra di origine palestinese e presidente dell’Associazione dei medici di origine straniera in Italia (AMSI), calcola, al 30 aprile 2025, 43.600 infermieri stranieri presenti in Italia, di cui 26.600 iscritti regolarmente all’albo professionale. Recenti disposizioni hanno agevolato l’ingresso (in precariato) di oltre 17.000 professionisti stranieri, nel tentativo di sopperire a una carenza strutturale di circa 65.000 infermieri.

Le principali comunità infermieristiche straniere in Italia provengono da Romania (12.000), Polonia, Albania, India e Perù; la loro presenza è maggiore in Lombardia, Veneto, Piemonte, Friuli Venezia Giulia e Campania.

A livello europeo, anche Francia, Germania e Regno Unito dipendono in misura crescente da infermieri di origine straniera, provenienti soprattutto da Asia, Africa ed Europa dell’Est. 
D’altronde, a livello globale, l’OMS registra che 1 infermiere su 8 lavora in un Paese diverso da quello di nascita o di formazione.

Sono ancora molti gli ostacoli al riconoscimento dei titoli esteri: circa 11.300 infermieri e fisioterapisti stranieri presenti in Italia non esercitano la professione per via di rigetti formali (25%), soprattutto da Paesi come Ucraina, India, Polonia e Filippine; scoraggiamento (75%) dovuto a burocrazia complessa, costi elevati, incertezza sui tempi; precarietà lavorativa e retribuzioni inferiori alla media. Inoltre, il 78% degli infermieri stranieri non ha la cittadinanza italiana, pur lavorando in Italia da anni e può lavorare solo in regime di cooperativa o nel settore privato. 

La scarsa diffusione di corsi pubblici di lingua italiana e di aggiornamento professionale (ECM) ostacola l’integrazione effettiva e la competenza clinica, aumentando il rischio di discriminazioni e isolamento, quando non di episodi di aggressione fisica o verbale.

La retribuzione annua lorda italiana è tra le più basse d’Europa: nel 2022, era di ben 9.463 dollari inferiore alla media OCSE di 58.394 dollari. 

Per tutti i motivi sopra elencati, oggi si sta verificando una fuga crescente dall’Italia: nei soli ultimi cinque mesi è aumentata del 32% la richiesta all’AMSI di partire per l’estero. 
Per opporsi a questa tendenza, occorre regolarizzare tempestivamente i circa 17.000 infermieri di origine straniera arrivati in Italia; promuovere corsi di lingua italiana; attuare la formazione continua in medicina; promuovere politiche che favoriscano la stabilizzazione dei contratti e che eliminino la precarietà.