Il cronico crimine di guerra di cui è vittima il popolo palestinese ad opera del governo israeliano e dei suoi sodali, così come l’invasione russa dei territori ucraini iniziata nel 2014 e intensificata a partire dal febbraio 2022, hanno distolto la già bassa attenzione dell’opinione pubblica non solo dagli altri conflitti in corso in oltre 50 Paesi nel mondo, ma dall’intensificarsi dei flussi migratori da parte di una moltitudine di persone in fuga da guerre o disastri climatici.
La Flotilla ha risvegliato una maggioranza di cittadini sonnolenta, delusa, impotente e rassegnata a manifestare almeno la propria contrarietà, ripudiando la guerra come previsto dalla Costituzione (art.11). Ma anche il cinema ha contribuito a scuotere le coscienze assegnando il Leone d’argento Gran premio della Giuria di Venezia 82 al docufilm La voce di Hind Rajab, della regista tunisina Kaouther Ben Hania, facendoci vedere la drammaticità di quello che subiscono le vittime: una realtà offuscata, taciuta, manipolata, contraddetta. Situazione comune a tutte le guerre, in particolare nei conflitti moderni sempre più ibridi, dove ai mezzi e metodi convenzionali le strategie di guerra associano mezzi non convenzionali, quali attacchi informatici, campagne di disinformazione, sabotaggio, manipolazione delle informazioni e interferenze politiche o economiche.
Di queste guerre ibride le vittime sono le popolazioni direttamente esposte nelle zone di conflitto, ma anche coloro che per delusione o disattenzione rinunciano a interpretare situazioni e azioni che negano i diritti… perché di altri, perché lontani.
Milioni in movimento
Il numero di migranti internazionali nel mondo nel 2024 è stato stimato dalle Nazioni Unite in 304 milioni, un valore quasi doppio di quello del 1990 (154 milioni). Un aumento dei rifugiati, dei richiedenti asilo e delle altre persone sotto protezione internazionale attribuibile in gran parte alle crisi umanitarie in diversi Paesi del mondo. In termini relativi è l’Oceania a presentare con il 21,5% la quota di migranti più elevata rispetto alla popolazione, seguita dal Nord America (15,9%), dall’Europa (12,6%) e dal Nord Africa e dall’Asia Occidentale (9,3%).
I bambini in fuga non sono mai stati tanti come oggi: il numero dei bambini sfollati in tutto il mondo è salito a 50 milioni, secondo l’Unicef. Le maggiori vie di fuga nel mondo sono la «rotta del Mediterraneo centrale», la «rotta dell’Asia sud-occidentale», la «rotta dell’Africa orientale» e la «rotta dell’America centrale». Percorsi tortuosi e multidirezionali, pericolosi per la sopravvivenza, che fanno lunghe deviazioni, attraversando più Paesi per raggiungere quelli di destinazione.
Nei primi mesi del 2025 l’Italia è il Paese europeo in cui è sbarcato il maggior numero di migranti: circa 30mila, un aumento del 16 per cento rispetto allo stesso periodo del 2024, ma un calo del 54 per cento rispetto al 2023. In media gli arrivi dei primi sei mesi sono quasi il 40 per cento di quelli totali di fine anno.
Ed è ancora il cinema a illuminarci la visione del reale. In tema di migrazione la lista sarebbe lunga e di qualità. Possiamo ricordare Green Border di Agnieszka Holland del 2023, che ha ricevuto il Premio Speciale della Giuria a Venezia 80, a raccontare la disumanità ai confini d’Europa attraverso la storia di una famiglia siriana che da Minsk cerca di raggiungere il confine tra Bielorussia e Polonia e, una volta entrata nell’Unione Europea, raggiungere dei parenti in Svezia.
La giuria di Venezia 82 nella sezione Orizzonti ha osato maggiormente che non in quella del Concorso e ha premiato il giapponese Akio Fujimoto per il suo ultimo lavoro, Lost Land (Harà Watan). Il cineasta giapponese, attento con le sue opere a descrivere i flussi migratori in Giappone provenienti dalla Birmania (in Passage of life) o dal Vietnam (in Along the Sea), questa volta documenta, con la finzione della recitazione (comunque di attori non professionisti), la verità del vissuto di uno delle migliaia di viaggi della speranza, lunghi, pericolosi, disumani. Finzione e documentario per narrare la fuga di alcuni appartenenti alla minoranza Rohingya dalla Birmania in Bangladesh, per passare in Thailandia e arrivare (in pochi) in Malesia.
Lost Land, girato in gran parte in Malesia, è stato realizzato con la partecipazione dell’associazione per rifugiati Elom Initiatives, un’organizzazione attiva a Kuala Lumpur dal 2017 per supportare la comunità dei rifugiati in Malesia con programmi di istruzione, emancipazione femminile, prevenzione sanitaria e sostentamento.
Lost Land racconta di un popolo tra i più perseguitati
Paese d’origine dei Rohingya è il Myanmar (Birmania), afflitto da una crisi umanitaria causata da conflitti diffusi, disastri naturali, epidemie, contaminazione da ordigni esplosivi e mine antiuomo e collasso economico. A metà del 2024, il Myanmar si collocava al secondo posto a livello mondiale per intensità di conflitto e al quarto per rischio civile, con il 43% della popolazione esposta a conflitti. È anche tra i tre Paesi più colpiti da eventi meteorologici estremi, dovendo affrontare gravi shock come cicloni e inondazioni.
La popolazione dei Rohingya è una delle più perseguitate al mondo. Originari del Rakhine, territorio della Birmania occidentale al confine con il Bangladesh, sono di religione musulmana sunnita. È un popolo di oltre un milione di persone (sui 50 milioni di birmani), che risiede in Myanmar da secoli, da sempre duramente discriminato per ragioni religiose, sia da parte musulmana, sia buddista. Lo scontro etnico-religioso si è inasprito dopo l’indipendenza dalla colonizzazione inglese. I Rohingya ancora oggi vivono nella condizione di “popolo senza Stato” e, in mancanza dello status di cittadini, sono particolarmente vulnerabili.
A partire dal 2017, anno caratterizzato dall’acutizzarsi delle violenze, oltre 730.000 Rohingya si sono rifugiati nei campi profughi in Bangladesh; il 60% dei rifugiati sono bambini. Dopo il colpo di Stato del febbraio 2021 con la presa del potere da parte dell’esercito e l’arresto della leader birmana Aung San Suu Kyi (premio Nobel per la pace nel 1991), la catastrofe umanitaria è diventata, se possibile ancora più grave, segnata dal crescere della violenza e degli arresti, aumentando i timori per tutta la società civile birmana, ma in particolare per il genocidio del popolo dei Rohingya già formulato dal Tribunale Permanente dei Popoli nella sessione svoltasi in Malesia nel settembre 2017.
I protagonisti di Lost Land sono ancora dei bambini: Shafi, quattro anni, e la sorella Somira, nove, lasciano un campo profughi in Bangladesh per intraprendere un viaggio verso la Malesia nella speranza di raggiungere uno zio là rifugiato. Lost Land non è solo cinema di denuncia sociale e politica, è cinema. Lo sono le sequenze in cui Shafi e Somira giocano a nascondino, anche in condizioni apparentemente assurde, e, come fanno i bambini, s’inventano un proprio mondo in cui cercano rifugio dalla cattiveria degli adulti e da quello che vedono e soffrono. Un cinema che rappresenta una intera comunità senza riconoscimento identitario se non quello fiducioso riposto nell’immaginario dei bambini, ma che si tiene lontano dal moralismo melenso e ipocrita di molti film con i bambini protagonisti (I bambini ci guardano di De Sica e Zavattini del 1943 come esempio per rimanere in Italia e a uno dei momenti storici che ha poi segnato una lunga produzione). Lost Land e La voce di Hind Rajab sono una denuncia del comportamento degli adulti a giudizio dei bambini: ruoli invertiti che dovrebbero farci riflettere e (re)agire.