Pubblicato il 23/05/2025Tempo di lettura: 6 mins
Qualunque sia la devastazione che la nostra specie potrà, volontariamente o involontariamente, arrecare al nostro pianeta Terra, questo certamente sopravviverà all’uomo e la biodiversità tornerà, in un futuro lontano per la nostra scala del tempo, a fiorire anche se avremo creato una sesta estinzione di massa. […] La specie Homo sapiens, e la sua civiltà, non potrà sopravvivere al degrado delle condizioni generali del Pianeta e dei servizi forniti dagli ecosistemi una volta che questi avranno collassato
Anche per chi guarda al futuro del pianeta – dunque della nostra stessa specie – con un certo pessimismo, in queste parole c’è qualcosa di rassicurante: la Terra, in un modo o nell’altro, si riprenderà dagli effetti della nostra azione distruttiva. Ma non solo. Questo scenario da incubo è evitabile, se scegliamo oggi di porre un limite al nostro impatto negativo sul pianeta, ascoltando scienziati ed esperti che continuano a studiare, proporre idee e sviluppare strategie concrete per salvare ciò che ancora possiamo preservare o restaurare. Il messaggio che lanciano è chiaro: non è troppo tardi, ma bisogna agire adesso. È un invito all’ottimismo, nonostante tutto.
Tra queste voci c’è anche quella di Alessandro Chiarucci, ordinario di Botanica ambientale all’Università di Bologna, che nel suo libro Le arche della biodiversità. Salvare un po’ di Natura per il futuro dell’uomo (Hoepli Telescopi, 2024) accompagna in un intenso viaggio attraverso la storia della natura e della scienza, da Linneo a Darwin fino alla complessità della conservazione ambientale nell’era dell’Antropocene. E la racconta anche attraverso il lavoro di grandi studiosi come Edward O. Wilson con la sua radicale “Half Earth”, la proposta di destinare almeno metà della superficie del pianeta alla sola protezione della biodiversità.
Il libro è per tutti, perché traccia un percorso scientificamente rigoroso ma divulgativo che accompagna chi legge nei secoli fino all’attuale crisi ecologica. Alla fine del libro, anche chi non era esperta o esperto di questi argomenti avrà la sensazione di aver fatto un bel salto in avanti: con più strumenti per capire in che stato si trova davvero il pianeta e, soprattutto, cosa possiamo fare concretamente per salvarlo.
Dal 1950, l’anno che segna ufficialmente l’inizio dell’Antropocene, si sono messi in moto quattro grandi processi che ne definiscono le caratteristiche. Prima di tutto, i tassi di erosione e trasporto dei sedimenti sono aumentati di dieci volte, a causa dell’urbanizzazione e dell’agricoltura intensiva. Poi ci sono i cicli naturali di elementi come carbonio, azoto, fosforo e vari metalli, che sono stati profondamente alterati. A questo si aggiungono enormi cambiamenti ambientali, il più evidente dei quali è il riscaldamento globale con tutte le sue conseguenze a livello planetario. Infine, l’intera struttura e il funzionamento della biosfera sono stati sconvolti: habitat naturali distrutti o degradati, specie in drastico calo o estinte, in parallelo a una crescente diffusione di specie domestiche e invasive. Tutti segni di un equilibrio ormai spezzato che ci mostra quanto sia urgente ripensare il nostro rapporto con la natura se vogliamo garantire una buona qualità della vita alle future generazioni. E, sul più lungo termine, se vogliamo sopravvivere.
In questo contesto di defaunazione, con la previsione di veder estinguersi fino a un milione di specie entro fine secolo, Chiarucci ci invita a non perdere di vista un altro aspetto: c’è ancora tanto da scoprire. Soprattutto tra quelle forme di vita ricchissime di diversità, ma che tendiamo a ignorare se non siamo appassionati del tema. Prendiamo i funghi, per esempio: finora ne abbiamo scoperte circa 120.000 specie, ma si stima che ne esistano tra i 2,2 e i 3,8 milioni. In pratica, conosciamo solo una piccolissima parte di questo regno: tra il 92 e il 97% dei funghi sul pianeta deve essere ancora descritto. Lo stesso vale per le piante. Molte delle nuove specie identificate negli ultimi anni, come le 30 varietà del genere Camellia scoperte in Cina nel 2019, potrebbero rivelarsi risorse preziose anche dal punto di vista alimentare. Segno che, nonostante il declino in corso, la biodiversità ha ancora molto da offrirci. Eppure sta proprio qui, nel non concentrarsi solo sull’aspetto utilitaristico, la chiave per un futuro diverso.
Per arrivare alla proposta dell’autore, il vero spostamento di prospettiva che ci propone non riguarda tanto i numeri, ma il modo in cui guardiamo alla natura. Un cambiamento che è prima di tutto etico. Quando si parla di biodiversità, tendiamo spesso a giustificarne il valore in termini di utilità: quanti benefici ci offre, quanta economia genera, a che cosa serve. Cibo, acqua, impollinazione e persino l’ossigeno che respiriamo sono i cosiddetti “servizi ecosistemici”, un linguaggio tecnico per dirci che, se distruggiamo la natura, stiamo distruggendo anche noi stessi. Quello che manca, secondo l’autore, è proprio una visione meno antropocentrica e più ecocentrica: l’idea, come ricorda nella prefazione Luigi Boitani – professore di zoologia a La Sapienza – che tutte le specie abbiano diritto di esistere, a prescindere dalla loro utilità per l’essere umano. È un principio etico semplice ma potente, che in un mondo ideale ci porterebbe a ridurre spontaneamente il nostro impatto sul pianeta. Così come già facciamo con i beni archeologici, che proteggiamo anche se non servono a niente di pratico, ma perché raccontano la nostra storia. Così dovremmo tutelare la natura per ciò che rappresenta, e non solo per quello che ci fornisce. Ma senza scordarci che, in realtà, ci tiene in vita.
Uno degli aspetti più stimolanti è l’ampliamento del concetto tradizionale di conservazione: non più limitato a parchi o riserve naturali, ma esteso anche a luoghi che, pur non essendo ufficialmente designati come tali, svolgono un ruolo fondamentale nella salvaguardia della biodiversità. Si tratta delle cosiddette OECM (Other Effective area-based Conservation Measures), riconosciute dai principali quadri internazionali per la tutela della biodiversità e tra le quali rientrano, ad esempio, i Siti Sacri, ovvero aree di particolare rilevanza culturale e spirituale. Questi luoghi, come Ayer’s Rock in Australia o il monte Fuji in Giappone, sono stati protetti nel tempo grazie alla profonda connessione che li lega alle comunità locali, spesso senza alcun interesse economico, ma solo per rispetto e devozione. L’autore del libro dedica particolare attenzione a questo tema, tanto da aver coordinato uno studio che ne ha mappati oltre 2.300. Includere questi siti nei piani di conservazione globale, come il progetto 30×30 (che mira a proteggere almeno il 30% della superficie del pianeta entro il 2030), non solo rafforza l’efficacia delle strategie ambientali, ma crea anche un legame profondo e disinteressato tra le popolazioni e i loro territori, offrendo nuove opportunità per una conservazione partecipata e culturalmente radicata, non legata al solo sfruttamento del territorio e agli interessi economici.
L’autore ci invita a compiere una scelta consapevole e non più rimandabile: designare una rete di aree protette – le cosiddette “arche” che danno il titolo al libro – che godano della massima tutela ambientale possibile. Si tratta di territori in cui i processi naturali possano svolgersi in modo libero, senza interferenze o interventi umani di gestione, e che dovrebbero estendersi almeno al 10% della superficie terrestre. Una proposta ambiziosa, soprattutto in un’epoca in cui l’impatto della nostra specie ha raggiunto ogni angolo del pianeta. Anche in Paesi come l’Italia, dove formalmente l’estensione delle aree protette è già prossima a questa soglia, l’effettiva qualità della protezione spesso non è sufficiente: molte di queste zone, infatti, continuano a subire pressioni legate ad attività umane come il turismo o lo sfruttamento delle risorse.
Per garantire davvero la continuità dei processi naturali che sostengono la vita sulla Terra è invece fondamentale che questi territori siano, per quanto possibile, incontaminati. L’idea di Chiarucci non è dunque solo ecologica, ma anche profondamente etica: un patto tra umanità e natura per assicurare un futuro condiviso. «Non posso certo tradire il mio innato ottimismo», dice l’autore nelle sue conclusioni. E il nocciolo sta tutto qui: crediamo davvero nella possibilità di un futuro non più antropocentrico?