L’alluminio contenuto nei vaccini pediatrici è sicuro e non aumenta il rischio di malattie autoimmuni, del neurosviluppo o allergie. A fornire una nuova evidenza sulla questione è uno studio condotto in Danimarca, pubblicato sull’Annals of Internal Medicine, che ha analizzato i dati di circa 1,2 milioni di bambini nati tra il 1997 e il 2018.
Sfruttando i registri sanitari nazionali, il team di ricerca ha stimato la quantità totale di alluminio ricevuta con i vaccini nei primi due anni di vita, con dosi incrementali fino a 4,5 milligrammi, e ne ha valutato l’associazione con 50 malattie croniche: 36 autoimmuni (tra cui diabete di tipo 1, lupus eritematoso sistemico, celiachia, psoriasi e morbo di Chron), 9 disturbi atopici o allergici (tra cui asma, dermatite atopica, rinite allergica e allergie alimentari) e 5 disturbi del neurosviluppo, tra cui quelli dello spettro autistico e l’ADHD. Dall’analisi non emerge alcun aumento di rischio per le patologie considerate e, anche nei bambini che hanno ricevuto le dosi più alte di alluminio, l’incidenza di queste malattie appare sovrapponibile al resto della popolazione. «È uno studio molto solido», commenta Paolo D’Ancona, dirigente di ricerca dell’Istituto Superiore di Sanità. «Conferma che l’alluminio contenuto nei vaccini, se somministrati secondo le indicazioni, non porta ad accumulo né è associato a rischi per un ampio spettro di condizioni. E rafforza le evidenze scientifiche contro le informazioni fuorvianti sui presunti pericoli degli adiuvanti».
Dall’alluminio all’mRNA, ciò che alimenta i timori sui vaccini
I sali di alluminio sono usati da decenni nei vaccini inattivati e ricombinanti per potenziare la risposta immunitaria, e sono quindi presenti in una serie di preparazioni comuni, come quelli contro difterite, tetano e pertosse (DTPa), Haemophilus influenzae tipo b, pneumococco (PCV), epatite A e B. Pur considerati sicuri, riemergono ciclicamente timori sui suoi effetti neurotossici e su un possibile aumento del rischio di patologie croniche. L’alluminio è inoltre da tempo uno dei bersagli delle campagne antivacciniste, che spesso descrivono gli adiuvanti vaccinali come metalli pesanti tossici. Ma le perplessità sulle vaccinazioni riguardano anche una serie di altri temi, già messi a fuoco dalla comunità scientifica: dal legame tra vaccino MPR e autismo alle accuse contro il conservante thimerosal, fino ai sospetti sul “sovraccarico vaccinale”. Nonostante nessuna di queste associazioni ha trovato conferma nelle ricerche epidemiologiche su larga scala, queste teorie persistono e alimentano la diffidenza.
«Durante l’emergenza COVID-19, ai dubbi classici si sono aggiunti quelli legati ai vaccini a mRNA, sia per la rapidità con cui sono stati sviluppati che per il meccanismo di produzione, che ha destabilizzato il rapporto abituale con la scelta consapevole, anche perché c’era l’obbligo vaccinale», prosegue D’Ancona. «Il percorso di valutazione, che normalmente si allunga nel tempo, si è compresso e sovraesposto sui media. Molti hanno interpretato la rapidità di sviluppo e approvazione come segnale di scarsa sicurezza, nonostante gli standard fossero rigorosi. In situazioni emergenziali, se mancano comunicazioni chiare e trasparenti, le perplessità crescono in modo esponenziale».
Negli ultimi anni, la propensione a vaccinarsi sembra aumentata. L’ultimo rapporto Censis, I nuovi tratti della cultura della vaccinazione in Italia, presentato a luglio 2025, stima che la piena fiducia nei confronti della vaccinazione negli ultimi dieci anni sia quasi raddoppiata, passando dal 22% del 2014 al 43% del 2024. Quasi il 60% degli intervistati ritiene oggi più rischioso non vaccinarsi che correre eventuali effetti collaterali, e oltre la metà sarebbe disposta a ricevere una dose aggiuntiva se questa aumentasse la protezione.
Fiducia, disinformazione e scelte politiche: il lungo percorso della prevenzione
Eppure, nonostante questi segnali positivi, la percezione resta ambivalente. Il 42% del campione considera le informazioni sui vaccini abbondanti ma “confuse e contradditorie”, e sono ancora presenti dubbi sulla sicurezza e sull’efficacia. La fiducia, più che nelle strutture pubbliche, si concentra su figure individuali: il 71,7% cita il medico di base come principale punto di riferimento, mentre solo il 20% indica i servizi vaccinali delle ASL.
«Negli ultimi anni le coperture sono migliorate, grazie anche all’introduzione dell’obbligo nel 2017, che ha spinto molti genitori inizialmente esitanti», aggiunge Daniel Fiacchini, dirigente medico del Dipartimento di Prevenzione di Ancona e membro della giunta nazionale SItI, «ma quella misura, pur efficace nell’aumentare i numeri, non ha risolto il nodo della fiducia, che resta centrale». Spesso, le criticità principali sono due: conoscenze confuse e un rapporto discontinuo con il Sistema Sanitario Nazionale. «Finché l’ASL chiama i genitori per le vaccinazioni pediatriche, il sistema funziona. Ma per adolescenti, adulti e anziani, il contatto diretto è scarso», prosegue Fiacchini. «Diventa quindi prioritario potenziare l’offerta e la formazione degli operatori, che devono ricordare ai cittadini quali vaccini esistono, perché sono sicuri e perché valgono. A queste difficoltà che cerca di rispondere il Piano nazionale di prevenzione vaccinale, che punta anche sulla formazione degli operatori e su comunicazioni coerenti, per evitare messaggi contraddittori che alimentano la sfiducia».
In questo scenario si inseriscono anche le recenti scelte italiane sulle regole che governano le emergenze sanitarie internazionali. La decisione dell’Italia di non aderire ai nuovi emendamenti al Regolamento Sanitario Internazionale (RSI) dell’OMS, insieme all’astensione sul cosiddetto Pandemic Agreement, rischia secondo alcuni di aumentare la diffidenza verso gli organismi sovranazionali che si occupano di salute pubblica. «Queste scelte si inseriscono in un clima già polarizzato e possono contribuire a rafforzare la percezione di frammentarietà delle istituzioni, indebolendo la fiducia pubblica nelle strategie di prevenzione», avverte Fiacchini.
Il Regolamento Sanitario Internazionale è uno strumento giuridicamente vincolante per prevenire e gestire la diffusione globale delle malattie infettive. Nato nel 1951 e aggiornato l’ultima volta nel 2005 dopo l’epidemia di SARS, è rimasto per quasi vent’anni invariato, pur essendo al centro della risposta a crisi come Ebola e COVID‑19.
Fra le principali novità del nuovo testo: una definizione comune di “emergenza pandemica”, per chiarire quando scatta l’allerta internazionale; l’obbligo di notificare entro 24 ore nuovi rischi sanitari potenzialmente rilevanti per la salute pubblica globale; l’impegno dell’OMS di facilitare l’arrivo rapido e in quantità eque di vaccini, farmaci e test diagnostici ai Paesi che ne hanno bisogno, così come quello di fornire finanziamenti sostenibili ai Paesi a basso reddito.
Un articolo pubblicato sul Journal of Law, Medicine & Ethics (Cambridge University Press) riassume e analizza criticamente gli emendamenti recentemente approvati, descrivendoli come un possibile “nuovo capitolo” per il diritto sanitario globale. Gli autori ricordano come il documento, nato come strumento tecnico-operativo, stia assumendo una funzione più politica, con l’integrazione esplicita di principi di equità e cooperazione.
L’Italia è stata l’unico Paese europeo a rifiutare gli emendamenti, seguendo la linea di Washington. La decisione, giustificata dal Governo come una manovra per difendere la sovranità nazionale, lascia il nostro Paese fuori dal gruppo che definirà regole e procedure future, pur dovendo comunque rispettare gran parte delle disposizioni, come previsto dal testo del 2005.
Sul fronte del Pandemic Agreement, adottato alla 78ª Assemblea Mondiale della Sanità a maggio 2025, Roma ha scelto invece l’astensione, posizione condivisa con soli dieci Paesi, fra cui Russia, Israele e Iran. Centoventiquattro, invece, i Paesi favorevoli. L’accordo è frutto di tre anni di negoziati, e mira a garantire una risposta più tempestiva ed equa alle pandemie future. Garantisce, per esempio, che i vaccini arrivino rapidamente ai Paesi più vulnerabili, favorisce la condivisione di dati su patogeni, vaccini e farmaci e introduce un approccio One Health. I dettagli operativi del documento saranno negoziati entro il 2026 da un gruppo di lavoro intergovernativo.
Un editoriale di Nature sottolinea come l’accordo segni un passo storico per garantire una risposta globale coordinata e stringente a future crisi sanitarie, ma allo stesso tempo avverte che il suo successo dipenderà dalla ratifica di almeno sessanta Paesi e dalla capacità di far rispettare il diritto internazionale, richiamando la necessità di cooperazione e fiducia reale tra governi, aziende farmaceutiche e comunità scientifica.
«La posizione dell’Italia è più politica che pragmatica», commenta Gianni Rezza, già direttore della Prevenzione sanitaria del Ministero della Salute e oggi docente all’Università Vita-Salute San Raffaele. «Non credo che esista un rischio concreto di perdita di sovranità per chi aderisce. L’OMS non può imporre lockdown, vaccinazioni obbligatorie o altre misure ai singoli Stati. Questi documenti, anche se inizialmente ambiziosi, sono stati molto discussi e ammorbiditi: alla fine, gli Stati restano liberi di decidere». Una posizione confermata anche da Reuters – oltre che dall’OMS stessa – che ha smentito le teorie sui poteri coercitivi dell’Organizzazione.
Le conseguenze concrete della posizione italiana sembrano riguardare soprattutto il peso politico più che la gestione sanitaria immediata. «Nel breve periodo cambia poco, perché l’Italia può contare su altre reti e strumenti, come i procurement europei o i piani pandemici nazionali, che andranno aggiornati entro il 2025», aggiunge Rezza. «Diversi, invece, sono i passaggi degli emendamenti al Regolamento Sanitario Internazionale che prevedono l’adozione di strumenti più concreti, quali le autorità previste per la sua attuazione. In questo caso noi continueremo a fare parte dell’OMS, rispettando il Regolamento del 2005, ma non partecipando alle riunioni di coordinamento delle autorità stesse. Il timore è che rischieremo in questo modo di contare di meno. E se in futuro venissero introdotti strumenti come un Green Pass internazionale per la libera circolazione, i cittadini italiani dovrebbero comunque adeguarsi alle regole fissate dagli Stati che hanno adottato l’accordo, altrimenti rischierebbero limitazioni negli spostamenti».